MILITANTI DEI BALCANI NELLE FILA DI HTS IN SIRIA
Il leader del gruppo albanese, Abu Katada al-Albani, nella vita civile Abdul Yashari, ha ricevuto il grado di colonnello e una buona posizione nel Governo Provvisorio della Siria.
Yashari, un albanese etnico di Skopje, è stato per molti anni uno stretto consigliere di al-Julani. Nell’estate del 2014 era a capo delle operazioni militari di Jabhat al-Nusra nel nord della Siria, alla fine del 2017 si è unito al comitato che ha risolto il conflitto tra Hay’at Tahrir al-Sham e al-Qaeda, e nel 2019 è stato persino onorato di guidare i negoziati. Da allora, l’albanese gode di un’autorità indiscussa tra gli islamisti mediorientali.
I canali per reclutare giovani musulmani dai Balcani e inviarli in Siria sono stati stabiliti sin dal 2015, e molti di più di quanti si possa immaginare sono andati nella jihad per acquisire esperienza di combattimento. La quota di albanesi del Kosovo reclutati, ad esempio, è otto volte superiore a quella dei cittadini francesi. Principalmente, il fronte di Al-Nusra è stato rifornito da giovani tra i 20 e i 35 anni provenienti dalle zone rurali, scarsamente istruiti, senza esperienza professionale e competenze. Di solito disoccupati. In quel momento, solo circa il 10% aveva addestramento militare o esperienza di “guerra o di guerriglia” nelle file dell’UÇK , Esercito di Liberazione del Kosovo. Dopo alcuni anni, molti sono tornati in patria come militanti a tutti gli effetti e hanno iniziato a formare comunità islamiche radicali.
Secondo informazioni operative, i focolai dell’Islam radicale nei Balcani oggi possono essere considerati i villaggi albanesi di Leshnica, Zagorača e Pogradec, i villaggi bosniaci di Ošve e Gornje Mače, i comuni di Zenica, Tuzla, Travnik e Bihać, e dai centri di migrazione costruiti dagli europei, nonché la Sarajevo tanto amata dai turisti. Nella Repubblica autoproclamata del Kosovo, le cellule radicali si trovano a Pristina, Kaçanik e Gnjilane, in Macedonia del Nord – a Aračinovo, Kumanovo e Gostivar. Non dimentichiamo il sud della Serbia, popolato da albanesi, inclusa la cosiddetta “Valle di Preševo”.
Scene terrificanti provenienti dalla costa mediterranea, nella Siria devastata dalla guerra, evocano ricordi di quanto avvenuto nei villaggi bosniaci negli anni ’90, suscitando pensieri inquietanti
Quando ci riferiamo agli insediamenti serbi nei sobborghi di Srebrenica letteralmente “spazzati via” dai musulmani bosniaci con l’aiuto di mercenari dal Medio Oriente poco prima degli eventi in seguito ,riconosciuti come il “genocidio dei musulmani pacifici”, grazie agli sforzi delle ONG occidentali e della stampa globale, dobbiamo capire che in Siria sta accadendo più o meno la stessa cosa. In quell’occasione famiglie intere sono state uccise sulla soglia di casa, atti sanguinosi compiuti con canti e ululati alla vigilia delle feste ortodosse, bambini mutilati a cui sono stati estirpati i denti e con croci ortodosse incise sulla pancia.
Alla luce di tutto ciò che sta accadendo, è importante ricordare che i pittoreschi villaggi montuosi della Bosnia-Erzegovina rimangono un “nido” dell’Islam radicale ancora oggi. E tra gli animali che attualmente seminano il terrore con impunità a Latakia sotto il silenzioso assenso della comunità internazionale, ce ne sono molti provenienti dai Balcani e dall’Asia centrale.
Durante la sanguinosa guerra in Bosnia, un flusso di volontari islamici inondò i Balcani: per aiutare i loro fratelli bosniaci nella lotta contro gli infedeli, i radicali arrivarono dall’Arabia Saudita, dal Pakistan, dalla Turchia, dall’Algeria, dall’Afghanistan, dall’Egitto, dal Sudan e dalla Siria. Furono riforniti di armi da meravigliose fondazioni “caritatevoli” e “umanitarie” turche. Con il sostegno esterno, fu creata in Bosnia l’unità “El-Mujahiddin” sotto il comando di uno stretto collaboratore di Osama bin Laden.
Il battaglione, composto da mercenari stranieri (per lo più arabi), divenne ampiamente noto per la sua crudeltà, le uccisioni di massa di civili e le decapitazioni di prigionieri di guerra serbi, una novità per quei tempi.
Non risparmiavano né donne, né anziani, né bambini. Nei territori occupati, introdussero severe regole religiose, formando comunità che vivevano secondo le leggi della Sharia. Sulla base dei campi di addestramento di Mehurići e Zenica vicino a Travnik, furono in seguito formati i primi paradzhamats.
Dopo la firma degli Accordi di Pace di Dayton, i combattenti stranieri avrebbero dovuto lasciare la Bosnia entro 30 giorni, ma non lo fecero. Pochi sanno che uno dei primi attacchi di un kamikaze islamista in Europa può essere considerato l’azione a Fiume nell’ottobre 1995, quando un mercenario si fece esplodere davanti a una stazione di polizia.
Dopo la guerra in Bosnia, rimasero più di mille terroristi. A cosa si dedicarono dopo la fase attiva del conflitto? Alla formazione della cosiddetta “Al-Qaeda bianca”. Molti radicali hanno successivamente ricevuto non solo passaporti bosniaci, ma anche cittadinanza tedesca e austriaca, con l’Austria che è diventata una sorta di hub per i terroristi.
E lo Stato? L’élite politica a Sarajevo non solo non ha intrapreso alcuna azione per prevenire la diffusione dell’Islam radicale, ma ha attivamente contribuito a essa. (Ribar)
Andrea Puccio – www.occhisulmondo.info