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E CHE CI VUOLE? BASTA UN CLICK. E AI TUOI SOGNI CI PENSIAMO NOI.

Gianvito Pipitone 

 

C’è qualcosa, nella pubblicità contemporanea, che ci riguarda più di quanto siamo disposti ad ammettere. Non tanto per ciò che ci propone, quanto per il modo in cui ci osserva, ci analizza e ci restituisce — in forma di slogan — le nostre abitudini mentali, le scorciatoie cognitive, le fragilità linguistiche. La pubblicità non si limita a descriverci: tenta di interpretarci. E lo fa con una precisione che, a tratti, risulta davvero inquietante.

Inquietante, perché ci parla come si parla a chi ha smesso di ascoltare, come se fossimo ormai diventati automi. Lo fa attraverso interiezioni, jingle, comandi. E poi, l’impressione è che non cerchi più di convincerci, perché in fondo l’ha già fatto. Ora punta ad anticipare le nostre mosse, senza invitarci a pensare, ma suggerendoci di cliccare. E in quel gesto — apparentemente innocuo, ripetuto, automatico — si nasconde la spiegazione più chiara di ciò che siamo diventati.

Non è un caso che ultimamente si parli sempre più spesso di “brain rot”, la marcescenza del cervello, ovvero la saturazione mentale, ufficialmente scelta come parola dell’anno 2024 dall’Oxford English Dictionary. Non è solo una questione tecnologica, e non riguarda soltanto i giovani: il brain rot descrive una condizione diffusa e trasversale, e racconta il modo in cui trattiamo il nostro cervello, in relazione al tempo a disposizione, al linguaggio che utilizziamo e all’immaginazione che ne deriva.

Ed è forse proprio da qui che occorre ripartire.

C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui la pubblicità sognava in grande. Era il tempo della “Milano da bere”, della casetta del Mulino Bianco, o anche dell’“ottimismo è il profumo della vita”: un’Italia che ancora si specchiava in spot patinati, forse ingenui e fatti a mano, ma capaci di evocare un sogno. Gli anni Ottanta con quell’aria da operetta borghese, i Novanta con la sitcom di aspirazioni middle class, i Duemila ispirandosi al catalogo di lifestyle con ambizioni sempre più globalizzate. Poi qualcosa si è rotto.

La pubblicità ha smesso di raccontare sogni e ha cominciato a gestirli. Dal decennio Dieci in poi, la comunicazione si è fatta più nervosa, più contrattuale, quasi burocratica: inclusione, sostenibilità, diversity — parole importanti, certo, ma spesso ridotte a ornamento, con il political correct assunto a nuova grammatica del sogno.

Oggi, dopo la traumatica esperienza del Covid, con l’avvento di una polarizzazione sempre più radicale — quella dell’uomo binario e dell’identità semplificata — e con il ritorno in auge di un revanscismo culturale destrorso, la pubblicità ha ufficialmente abbandonato il sogno. Non racconta più, non evoca, non costruisce immaginari. Ha smesso di suggerire e ha iniziato a impartire ordini. Lo fa in modo quasi esplicito, senza più bisogno di sottintesi o strategie subliminali.

Prendiamo, giusto per non fare nomi, Prima Assicurazione. Lo spot è semplice, quasi teatrale. Un uomo cerca di parlare, ma viene interrotto da un clacson intermittente. Non un rumore di sottofondo, ma un vero e proprio sabotaggio sonoro. Il messaggio? Se hai l’assicurazione giusta, puoi interrompere chiunque. Con la cafoneria elevata a diritto assoluto. Il clacson diventa linguaggio, gerarchia e, per proprietà transitiva, potere. All’uomo, che reclama solo di poter parlare — non tanto di avere ragione, ma semplicemente di esistere nel discorso — non resta altro che soccombere. Perché lui, a differenza di quello con il clacson, non ha l’assicurazione giusta.

In questa piccola pièce pubblicitaria si condensa il nuovo ethos: il servizio acquistato come diritto di prevaricazione. La priorità non è più morale, né logica. È commerciale. E chi non ha pagato, taccia.

Altro tormentone del momento: “E che ci vuole?” — una vocina puntuta, reiterata, che si insinua nel dialogo tra un uomo smarrito e la sua fatturazione elettronica. Lo slogan, legato a una società di servizi per la PEC, è molto più di una battuta pubblicitaria: è una sintesi perfetta dell’italiano contemporaneo. Un idioma sgrammaticato, semplificato, italiondo. Non cerca di spiegare il funzionamento del servizio, né di accompagnare l’utente nella comprensione. Esorcizza la difficoltà, liquida la complessità. Non la affronta, la zittisce.

“E che ci vuole?” è il termometro linguistico di un paese spensierato che ha smesso di pensare in termini di causa-effetto e ha cominciato a vivere in quelli di effetto a cascata. Prima si semplifica, poi si pensa. Prima si ride, poi si crede. Il linguaggio si è scarnificato, ridotto all’osso, e si sovrappone esattamente al messaggio: poco fare, poco pensare, pochi pensieri. Con un sottotesto che non lascia spazio a interpretazioni: “Vai pure a divertirti, che a fatturare per te ci pensiamo noi.”

Anche questo ci dice qualcosa, con inquietante precisione, di come siamo diventati. Altro esempio. Lo slogan di Aruba per i servizi digitali è solo apparentemente innocuo. “Basta un click” è il sottoprodotto diretto di “E che ci vuole?”, la sua conseguenza logica e linguistica. Se il primo deride la complessità, il secondo la liquida. Il pensiero — notoriamente troppo lento, troppo esigente, troppo umano — viene trattato come un impiccio. Una palla al piede, anzi due palle. E così, al suo posto, si insedia il gesto automatico: il riflesso condizionato, il click come scorciatoia ontologica.

Siamo cioè diventati, senza nemmeno accorgercene, i cani di Pavlov del marketing digitale. Addestrati a reagire e a cliccare, anche senza comprendere. E dire che nessuno ci aveva avvertiti. O forse sì, ma eravamo troppo occupati a scrollare.

E poi c’è la banca. Non come istituzione finanziaria, ma come dispositivo narrativo. La banca è il luogo dove il sogno del passato si trasforma in pratica, dove il desiderio si converte in voce di bilancio. È lì che, a mio avviso, la pubblicità raggiunge la sua forma più compiuta di “gestione” della vita.

Sono tanti gli slogan che circolano — “La banca che semplifica la vita”, “La banca per le persone”, “La tua banca, sempre con te”, “La banca costruita attorno a te” — ma ce n’è uno che spicca per chiarezza e ambiguità: “Ai tuoi sogni ci pensiamo noi”. È una formula che rassicura, certo, ma che al tempo stesso infantilizza. Il sogno non è più qualcosa da costruire, da rischiare, da difendere. È qualcosa da affidare, da mettere in cloud, da gestire in outsourcing.

Il cittadino non è più chiamato a immaginare, ma a consegnare. Il sogno diventa un pacchetto da spedire in una Email Box, una pratica da riempire, una procedura da vagliare. La banca si propone come curatore di desideri, come curatore fiduciario dell’immaginazione. Ma sotto la superficie, il messaggio è sempre lo stesso: non sognare troppo, non pensare troppo, non agire troppo. A quello ci pensiamo noi. Tu piuttosto: “Qualsiasi cosa significhi per te avere un sogno, affidalo a noi, firma il documento, clicca sul consenso informato: noi te lo teniamo al caldo, e quando ti serve, lo scongeliamo per te.”

A pensarci bene, in uno di quei momenti di lucidità che ogni tanto ci sorprendono fuori guardia, ci si potrebbe persino indignare. Come si permettono, questi della pubblicità, di trattarci come se fossimo incapaci di discernere? Come se la nostra capacità di visione fosse un errore da correggere? Come se il pensiero fosse una funzione da disattivare?

Eppure lo fanno. Lo fanno con metodo, con insistenza, con ragionata efficacia. E non solo ci parlano così: ci costringono a pensarlo. A interiorizzarlo. A ripeterlo.

Perché? Perché c’è qualcosa che non torna più nei nostri cervelli e loro lo hanno capito. Ed è allora che torniamo al punto iniziale, a quel brain rot, la marcescenza cerebrale di cui parlavamo prima. Sembra che il marketing digitale abbia studiato a fondo le leggi che lo regolano e come applicarlo sulle nostre menti a dir poco distratte, da un clic, da un scroll, da un gingle, fino all’ultimo dei più insignificanti video che scoviamo su you tube, instagram, X o facebook. 

Il brain rot non è più solo un sintomo. È diventato un ambiente. Una condizione mentale che non riguarda soltanto i giovani, né si limita a chi vive incollato a uno schermo. Il cervello si intasa, impigrisce, si riempie di automatismi, di contenuti banali, di gesti ripetuti, mentre le conseguenze sono sotto gli occhi: lentezza mentale, perdita di logica, difficoltà espressiva, relazioni impoverite. E in questo scenario, la pubblicità — insieme a ogni forma di comunicazione manipolatoria, dalla propaganda al marketing emozionale — trova un’autostrada nelle nostre menti ormai ridotte ad un colabrodo.

E allora? Come uscirne?

Difficile dirlo. Ma forse, per difendersi, non resta che fare l’unica cosa che non ci viene più richiesta: pensare. Pensare male, pensare storto, pensare fuori asse. Pensare da corsari. Pensare.

E se proprio dobbiamo scegliere uno slogan, che sia questo: “Non funziona, non serve a un #azzo, ma almeno fa pensare.”

 

Di Gianvito Pipitone – https://gianvitopipitone.substack.com/

2 pensiero su “E CHE CI VUOLE? BASTA UN CLICK. E AI TUOI SOGNI CI PENSIAMO NOI.”
  1. Che fatica leggere questa critica alla pubblicità! Ma chi ci aspettava? E che ci vuole? dicono loro, e noi, senza pensare due volte, clicchiamo Basta un click. Il brain rot è la nuova patria, dove il clacson di Prima Assicurazione è la musica dinsieme. Il marketing ha vinto, ha reso il sogno un servizio a pagamento e il pensiero un optional. Per fortuna, cè sempre unalternativa: pensare male. Lunica cosa che non ci chiedono, e che ci salvano da diventare dei cani di Pavlov addestrati a cliccare su La banca che semplifica la vita. Forza, forse è meglio essere un idiota sgrammaticato che un utente perfettamente gestito. #PensareMalvòng xoay may mắn

  2. Trovo la pubblicità così irritante e fuorviante che non la sopporto più. Crea bisogni che nessuno ha, e mente platealmente. Stesso fastidio che mi danno i supermercati con l’eccesso di prodotti inscaffalati, l’apparente disordine che ti fa girare come una trottola impazzita e alla fine, pur di uscire, compro si e no la metà di quel che mi serve.

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