Trump e NetanyahuTrump e Netanyahu

TUTTI PAZZI PER TRUMP  

Gianvito Pipitone

 

Ed eccoci qua, ad incensare Trump come non ci fosse un domani. Già, proprio lui. Quello che una decina d’anni fa sembrava piombato alla Casa Bianca per caso, per un errore di casting. America First, diceva: disinteresse per l’estero, narrazione muscolare per la politica domestica. E invece no. È proprio la politica estera – quella che doveva ignorare – a incoronarlo oggi, senza rivali, re del globo terracqueo. Paradosso? Certo. Ma anche copione a lungo costruito. Come ci siamo arrivati? Già… come ci siamo arrivati.

Per cominciare, occorre scrollarsi di dosso – con pazienza e metodo – l’insieme di pregiudizi, preconcetti e fisime che il personaggio inevitabilmente suscita. E poi ripetere l’esercizio, più volte, finché lo sguardo non si fa davvero limpido. Ci siete? È dura, me ne rendo conto, ma solo allora, forse, si può iniziare a ragionare sull’uomo e sulla sua incredibile proiezione.

Partiamo, allora, dal concetto di pace stesso. In un mondo che continua a inseguire la chimera della “pace giusta”, Donald Trump propone qualcosa di diverso: una “pace possibile”, meno nobile, ma più utile. E la spaccia per pace vera. Una tregua, un break – come nel pugilato – nella speranza che il gong finale metta fine, prima o poi, alle ostilità.

No, se siamo alla ricerca di un pacificatore, un idealista o un uomo di sani princìpi, non è a lui che dobbiamo guardare. Ma è proprio per questo, grazie alle sue particolari caratteristiche, che riesce a trattare con chiunque. La forza del suo approccio non risiede nella saggezza, ma in una forma di pragmatismo negoziale: io do una cosa a te, tu dai una cosa a me. Semplice, come il baratto, dalla notte dei tempi ad oggi. A lui non interessa chi abbia ragione nella disputa: si chiede soltanto se quell’accordo si possa fare e cosa ci può guadagnare.

Turbo-affarismo, certo. Eppure, in un contesto segnato da guerre, instabilità e leadership fragili, questa postura può produrre risultati concreti. Ovviamente, resta da capire quanto di questa strategia – che Trump applica con disinvoltura in politica estera – sia davvero esportabile anche in patria, dove sta affrontando una serie di scontri con esiti meno brillanti rispetto al palcoscenico internazionale.

Ma al di là dei confini, c’è un elemento che attraversa ogni piano d’azione: la comunicazione. Oltre alle sue espressioni facciali – che a molti risultano respingenti e indigeribili – ciò che colpisce in Trump è la sua capacità di generare empatia. Non per ciò che dice, ma per come lo dice: con una genuinità ruvida, priva di ipocrisia. È un tratto psicologico rilevante, perché lo rende percepibile come autentico, non costruito, non artefatto. E questa autenticità, per quanto scomoda o disturbante, è parte integrante della sua postura comunicativa.

Ma è nel contenuto che si compie il vero scarto. Trump non si lascia imbrigliare da ciò che la diplomazia chiama tabù geopolitico. Nel suo intervento alla Knesset – di ieri l’altro, che mi sono premurato di riascoltare integralmente – emerge chiaramente questa logica: il businessman che parla di investimenti, infrastrutture, commercio. L’idea che la stabilità si costruisce con i cantieri, non con le prediche. Nel suo modo di vedere le cose, cioè, nella loro semplicità basica, la moralità è sospesa.

E non solo. A colpire è anche la sua incredibile freddezza nel parlare delle armi americane: missili, droni, sistemi d’attacco che “colpiscono a fondo con grande efficienza” – parole sue. Un linguaggio ai limiti dell’agghiacciante. Che stride in maniera pesante, inaccettabile, di fronte alla morte che quelle armi – di cui tesse le lodi – hanno provocato. Nessuna esitazione, nessun turbamento. Solo performance, efficienza, risultato.

Eppure, è proprio questa indifferenza – lucida, calcolata, quasi clinica – a renderlo così efficace nella trattativa. Che l’interlocutore sia un autocrate spietato, una milizia con l’hobby della peggio macelleria, un governo sotto embargo o una potenza apertamente ostile, cambia poco: se c’è margine per un accordo, puoi stare sicuro che lui è già posizionato su quel binario. Mica sceglie per affinità ideologica i suoi interlocutori: solo quelli utili alla sua causa. Il tycoon newyorkese è insomma la quintessenza del Machiavellismo 2.0, senza latinismi e senza veli: il Principe che diventa automaticamente Deal, la virtù che si trasforma in opportunità.

Del resto, la sua palestra non è mai stata la diplomazia, ma l’immobiliare. Anni e anni di trattative con costruttori, investitori, intermediari e personaggi di dubbia provenienza, in contesti dove il confine tra affari e ambiguità è spesso sfumato, hanno affinato quell’istinto bestiale che oggi si ribalta – senza molte sofisticazioni – in politica estera. Faccia di gomma, si direbbe in gergo. Per non dire altro. Certo, ma anche grande flessibilità: lì dove altri vedono rischi reputazionali, lui vede margini di manovra. E in questo, la sua indifferenza al moralismo diventa uno strumento operativo. Un vantaggio, se si vuole.

Trump sa che la politica è un mestiere sporco, e così la tratta: senza scrupoli né finzioni. Tantomeno emotività. L’uomo è cinico per natura, e consapevole di esserlo. Proprio per questo, pericolosamente efficace. Il suo approccio, spesso definito caotico o opportunista, ha un pregio: non si nasconde mai dietro le buone maniere.

Intorno a lui, a chiudersi a riccio, la sua squadra compatta – da Vance a Witkoff, da Rubio a Hegseth, fino al genero Kushner – compone una scenografia politica, un clan vero e proprio, fatto di fedeltà, spettacolo. E narrazione. La sua leadership è frutto anche di una spettacolarizzazione. Ogni apparizione pubblica è una performance: hanno ormai abituato i suoi sostenitori. Ogni gesto è visibile, ogni parola, ogni frase o slogan, pensati per essere ripetuti. Ringrazia in pubblico, mette in primo piano le figure chiave, costruisce relazioni personali che aggirano i canali istituzionali. È una forma di soft power che non si affida alla discrezione, ma alla teatralità. E funziona. Perché in certi contesti, la fiducia si costruisce non con i memorandum e i trattati, ma con un gesto plateale: raccontando barzellette, gingillandosi nel suo ego smisurato fino all’inverosimile, sfondando i canoni anche della decenza.

Oltre alla costruzione, c’è la demolizione. E anche tanta. Trump è anche un picconatore. Demolisce l’eredità dei predecessori, scarica responsabilità su Biden e Obama, e nello stesso tempo offre soluzioni pragmatiche – anche controintuitive – come il dialogo con avversari storici.

È una tattica divisiva, certo, ma efficace. Perché apre spazi negoziali che le parole d’ordine idealistiche chiudono a chiave. E in un mondo dove tutti recitano, lui almeno non finge. Perché lui è quella cosa lì. Non fa che replicare se stesso, senza alcuno sforzo.

Non è un elogio. Non può esserlo, ovviamente. Questo tipo di approccio produce tregue sporche e compromessi che non aggiustano le radici dei conflitti. Finisce anche per legittimare attori repressivi e spesso violenti, e nella maggior parte dei casi può lasciare irrisolte questioni di giustizia e di lungo termine. Ma risolve emergenze. E questo, in certi momenti – come in questi tempi un po’ disgraziati – è già qualcosa.

Il valore del trumpismo non sta nella nobiltà della sua morale, inesistente, come abbiamo visto, ma nell’efficacia con cui trasforma il dialogo impossibile in trattativa possibile. Riconoscerne la forza tattica non significa sottoscriverla o abbandonare i princìpi. Significa, piuttosto, capire che la politica internazionale spesso procede per compromessi. E che chi rifiuta questa verità rischia di restare ai margini della storia, mentre gli altri scrivono le postille dei trattati.

E per finire, il paradosso per eccellenza. A questo punto, non ci resta che l’immorale Trump, il violento, l’indifferente Trump,  sia pronto a  trasferirsi sull’altro versante di guerra che scuote il mondo. Fra un affare e l’altro, si spera che riesca pure nell’impresa di far cessare il fuoco incrociato tra Putin e Zelensky. D’altra parte, di ricostruzioni, affari e speculazioni non ne dovrebbero mancare neanche lì. A spanne.

 

Gianvito Pipitone – https://gianvitopipitone.substack.com/

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