Donne manifestano per la legalizzazione dell’aborto in BrasileDonne manifestano per la legalizzazione dell’aborto in Brasile

ABORTO IN BRASILE: SE CI SONO COMPLICAZIONI LA SCELTA E’ TRA MORTE O CARCERE

Ogni anno in Brasile centinaia di donne che abortiscono non legalmente si trovano davanti ad un bivio: andare in ospedale per le complicazioni dell’aborto ed essere criminalizzate, oppure morire in casa dissanguate.

L’aborto in Brasile è legale solo in tre situazioni: gravidanza frutto di uno stupro; rischio di vita per la donna incinta; grave malformazione del feto. In ogni caso, l’intervento deve avvenire entro le 22 settimane.

Secondo l’articolo 124 del codice penale brasiliano, la donna che effettua il proprio aborto può essere condannata da uno a tre annidi carcere in “regime chiuso”.  Coloro che eseguono la procedura con il consenso della gestante possono essere condannati a quattro anni.

Aborto in Brasile: i dati degli aborti legali e clandestini

Secondo il Consiglio nazionale di giustizia (Cnj), dal 2015 al 2018 sono stati registrati 1.313 processi penali per il reato di aborto causato dalla donna incinta o dai terzi con il suo consenso.

Secondo il DataSus, la banca dati del Sistema unico per la sanità (Sus), da gennaio a giugno di quest’anno sono stati eseguiti 1.024 aborti legali, ossia quelli autorizzati per legge in tutto il Brasile.

Nonostante i sistemi informativi sanitari brasiliani non riportino dati sul numero di donne soccorse a causa di aborti non sicuri, nel primo semestre 2020 sono stati eseguiti circa 81 mila interventi a causa di aborti clandestini, spontanei o complicanze post-partum.

A Rio de Janeiro 42 donne processate per aver abortito

Rio de Janeiro e San Paolo sono in testa fra le regioni che più rinviano a giudizio le donne. Secondo la ricerca “Fra la morte ed il carcere” (scarica qui il Pdf), condotta nel 2018 dalla difensoria pubblica di Rio de Janeiro, dal 2005 al 2017, 42 donne sono state processate per aver abortito nella regione carioca.

Fra le pagine del documento ci sono alcuni estratti degli atti processuali analizzati durante la ricerca. Frammenti di vita che mostrano l’annientamento dei diritti civili delle donne. Anche quello alla vita, perché si può morire in seguito a complicazioni dopo un aborto casalingo, come è successo alla donna J.F.G.

«Che la deponente ha spesso consigliato sua sorella chiedendole di non farlo (l’aborto), ma lei era disperata e aveva molta paura di avere il bambino, visto che era già madre di quattro figli e uno di loro ha una paralisi cerebrale. Inoltre, il suo partner era molto irresponsabile (…); che sua sorella stava uscendo per andare a casa di una donna chiamata Célia per abortire (…); che verso le ore 10, la deponente ha ricevuto una telefonata dalla sorella e questa era al pronto soccorso PAM Meriti sentendosi molto male (…); che non vide più sua sorella, essendo morta il la mattina del giorno dopo. (J.F.G., sorella di una donna nera che ha abortito, Rio de Janeiro)».

Si percepisce una situazione di estrema vulnerabilità in cui si trovano queste donne. Secondo la ricerca, l’accesso all’aborto sicuro è determinato dalla classe sociale in cui vivono.

Aborto illegale: in Brasile rischi maggiori per donne nere e povere

Se, da un lato, per la donna bianca, di classe sociale privilegiata, istruita, la decisione di interrompere la gravidanza può essere assunta con un relativo grado di protezione, visto che spesso si può permettere il pagamento di una procedura con assistenza medica nella fase iniziale della gravidanza, per le donne nere il diritto di scelta è asfissiato dalla loro condizione sociale, che le spinge a utilizzare metodi casalinghi, come l’uso di tè abortivi e autosomministrazione di farmaci, in stadio avanzato della gravidanza, con alto rischio di morte e frequente necessità di ricovero per soccorsi urgenti.

La ricerca mette fa luce su un altro dato importante: le donne criminalizzate a Rio per avere abortito, nel 60% dei casi sono nere e povere.

I dati indicati sul colore della pelle e la povertà delle donne criminalizzate non costituiscono una singolarità della regione di Rio de Janeiro. Questo perché i modelli identificati convergono con le statistiche della Ricerca Nazionale sull’Aborto che confermano lo stesso profilo delle donne che hanno abortito. Hanno cioè un basso livello di istruzione e di reddito, sono in maggioranza nere o indigene.

L’aborto in Brasile conta oltre mezzo milione di operazioni illegali all’anno

Realizzato nel 2016 dall’Istituto di Bioetica e dall’Università di Brasilia, il documento sottolinea come il 20% delle donne abbia avuto almeno un aborto illegale alla fine della propria “vita riproduttiva”. Secondo i dati, nel 2015 circa 500 mila donne avevano abortito.

La cuoca Cristina (il nome è di fantasia), 43 anni, abita a Niteroi, nella regione di Rio de Janeiro e racconta la sua storia. Nel 2004, aveva 27 anni, era già madre sola di un bimbo di 5 anni quando sua mamma è venuta a mancare. Dopo 2 anni accanto alla madre è tornata all’università, ad uscire con gli amici e con un ragazzo. Dopo 4 mesi ha scoperto di essere incinta da tre. «Mi domandavo che cosa avrei fatto. Non volevo un altro figlio. Ho chiamato mia zia che mi ha tranquillizzata e mi ha accompagnato dal ginecologo. Gliel’ho detto che non potevo essere mamma in quel momento. La sua risposta è stata: se vuoi abortire hai il mio appoggio. Ma tu sai che in Brasile l’aborto, nel tuo caso, è illegale», racconta.

Il suo medico l’ha indirizzata a una clinica clandestina in un quartiere ricco nella città di Rio de Janeiro. Circa 900 euro in contanti. L’hanno accompagnata suo fratello e la sua più cara amica.

«Quando sono arrivata ho visto che era una clinica estetica. Sono entrata, ho pagato per il trattamento estetico e dopo 15 minuti una macchina è venuta a prendermi e mi ha portato in un palazzo pieno di uffici. Nella sala d’attesa, altre 10 donne che aspettavano. Mi ricordo che non si guardavano in faccia, anzi, avevano gli occhi puntati per terra. Una di loro è andata via. Io no. Anche se ero molto nervosa sapevo che era la cosa giusta per me. Mi hanno chiamata, non volevo mollare la mano di mio fratello, ma sono andata. Mi sono distesa su un letto ginecologico. Mi hanno coperta e chiesto di contare fino a dieci. È stato veloce, pieno di sensi di colpa, però zero pentimenti».

Cristina oggi è sposata e ha un figlio di 6 anni, oltre al più vecchio che ha 21 anni. Lei è consapevole che il colore della sua pelle e la sua condizione economica le hanno permesso di avere un aborto sicuro. «So che questa non è la realtà di chi abortisce in Brasile. Tutti i giorni bambine e donne muoiono nel nostro paese. L’aborto è un problema di sanità pubblica e deve essere legalizzato».

L’aborto clandestino non è sicuro: storia di Camila

La sua storia assomiglia a quella di Camila (il nome è di fantasia), 38 anni, che vive a Florianópolis, nella regione di Santa Catarina. Quando ha abortito, la design di gioielli aveva 30 anni ed era madre di una figlia di 3 anni. Aveva due lavori e si era appena separata. «Prima hai paura perché non vuoi quella gravidanza. Dopo hai paura di morire perché sai che l’aborto non è sicuro perchè non è legalizzato», racconta.

«Tu sai che passerai per una procedura che, in teoria, sarebbe sicura se fosse stata fatta in ospedale, ma che alla fine dovrai arrangiarti e farla a casa ed è quello che è successo a me», dice. Camila ha preso una medicina chiamata cytotec per abortire. Anche se è vietata la vendita nelle farmacie, è possibile trovarla nel mercato nero.

Lei è andata con un’amica ad una zona deserta della città e, parlando in codice, è riuscita ad avere alcune pastiglie. «Ho consegnato i soldi, preso il pacchetto e sono andata via. In questo momento non riuscivo a smettere di piangere, non perché non volessi abortire, ma per tutta la situazione. Mi sono sentita una nullità».

Camila ha avuto il suo ex fidanzato accanto durante tutto il tempo. Sono state circa 10 ore di paure e dolori. «Pensavo solo a non morire. Per fortuna non ho avuto complicazioni», dice.

Aborto legale e razzismo in Brasile

La sua amica Rosa (il nome non è reale) ha avuto accesso all’aborto legale, però ha dovuto affrontare una serie di situazioni di discriminazione.

Rosa ha scoperto di essere incinta e aveva deciso abortire perché il suo fidanzato era aggressivo. Un giorno, dopo un grave litigio, lei ha iniziato a sentire dei forti crampi alla pancia ed è andata all’ospedale. Dopo un ultrasuono le hanno riferito che c’erano dei problemi e che avrebbe dovuto interrompere con la gestazione. In teoria, quello era un aborto legale.

«Appena arrivati alla maternità, l’infermiere, senza nemmeno guardare la prescrizione medica che autorizzava la procedura, l’ha guardata in faccia e domandato se era lì per un aborto fatto male a casa. Siamo state le prime ad arrivare e lei è stata l’ultima a fare l’intervento. Era già mezzanotte passata», racconta.

Sua amica sapeva che il disprezzo era in verità razzismo. E quel sospetto è stato confermato la mattina dopo, quando tutte le donne bianche hanno avuto la colazione e a lei non l’hanno portata.

Quello che uccide non è l’aborto, è la clandestinità

La tabella di marcia è sempre la stessa per chi decide abortire illegalmente: se si va in ospedale dopo una complicazione si può essere denunciati dal personale medico e criminalizzate; in caso contrario, si rischia di morire.

Dal 2009 al 2018 il Sistema unico per la sanità ha registrato 721 decessi di donne per aborto e le principali vittime delle procedure di aborto realizzate illegalmente, in generale, sono donne nere.

«Le donne non muoiono di aborto. Muoiono per l’insicurezza imposta dalla criminalità. E sappiamo che coloro che muoiono sono le più vulnerabili, che si trovano nelle condizioni più fragili di accesso a metodi sicuri. Ciò che uccide non è l’aborto, è la clandestinità» , ha detto Debora Diniz, antropologa e professoressa all’Università di Brasilia, in un’intervista alla Deutsche Welle.

Diniz sostiene che la legalizzazione sia necessaria per riconoscere «che si tratta di un problema di salute, non una questione criminale» .

Governo Bolsonaro contrario all’aborto

Il 22 ottobre di quest’anno, il Brasile, insieme a Stati Uniti, Egitto, Ungheria, Uganda e Indonesia ha firmato a Washington un documento chiamato Dichiarazione di Ginevra contro le politiche che forniscono l’accesso all’aborto.

Il documento si oppone ad alcune prese di posizioni delle Nazioni Unite, che hanno lavorato contro la discriminazione delle donne e l’estensione del diritto all’aborto.

La Dichiarazione di Ginevra sostiene che l’aborto non dovrebbe essere promosso come metodo di pianificazione familiare e che qualsiasi misura relativa a questo nei sistemi sanitari può essere determinata solo dai paesi stessi, a livello nazionale.

https://www.osservatoriodiritti.it/2020/11/24/aborto-in-brasile/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *