Il Medio OrienteIl Medio Oriente

CAMBIA LA STRATEGIA DI BIDEN IN MEDIO ORIENTE?

Nel suo primo mese di attività, l’amministrazione Biden ha riservato notevoli attenzioni al Medio Oriente, innescando una complessa dinamica di azioni e reazioni di cui è ancora impossibile prevedere l’esito.

Sembra comunque evidente che l’impianto ereditato da Trump sia destinato a subire pressioni importanti, probabilmente irresistibili, che non tarderanno a produrre effetti notevoli.

Nel breve volgere di una decina di giorni o poco più si sono verificate alcune importanti novità, sia nei rapporti intrattenuti dagli Stati Uniti con l’Iran che nelle relazioni tra Washington e Riad.

Veniamo a Teheran. Joe Biden aveva fatto del rientro dell’America nel Jcpoa – gli accordi sul nucleare iraniano sottoscritti a Vienna il 14 luglio 2015 dall’amministrazione Obama e dai rappresentanti degli altri paesi del gruppo dei 5+1 – uno dei cavalli di battaglia della sua battaglia elettorale contro Trump, che ne era uscito. Era quindi lecito attendersi delle iniziative volte a rivitalizzarlo, riportando la Repubblica Islamica al tavolo delle trattative.

Le cose, tuttavia, non sono per il momento andate come previsto. Inizialmente, Biden aveva offerto la propria disponibilità a ricondurre gli Stati Uniti nell’alveo dell’intesa, ma gli iraniani avevano risposto picche, chiedendo a Washington di rimuovere preliminarmente le sanzioni imposte a suo tempo da Trump per indurre Teheran a cedere nel quadro della cosiddetta strategia della massima pressione.

Biden ha opposto un netto rifiuto, ma poi ha ritrattato, mettendo sul tavolo la cancellazione delle misure vessatorie decretate ai danni della Repubblica Islamica mentre rimuoveva dalla lista delle organizzazioni che gli Stati Uniti considerano terroristiche gli Houti yemeniti, da molti analisti ritenuti degli alleati prossimi dell’Iran nella penisola arabica.

A dispetto di queste aperture, si sono però verificati ulteriori gesti ostili da parte di attori riconducibili alla galassia degli alleati regionali di Teheran. Dallo Yemen sono partiti nuovi attacchi contro il territorio saudita, mentre in Iraq vi è stato nei giorni scorsi almeno un lancio di razzi contro la Zona Verde di Baghdad. In un altro episodio occorso sempre in territorio iracheno, ma il 15 febbraio, inoltre, era morto un contractor americano.

A quel punto, Biden ha reagito a sua volta, ordinando un attacco missilistico alla frontiera siro-irachena che nella notte tra il 25 ed il 26 febbraio ha ucciso un certo numero di miliziani filo-iraniani, forse 17, stando almeno alle cifre fornite dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, peraltro non sempre attendibile.

Malgrado volontà distensiva mostrata dalla nuova amministrazione americana, quindi, la tensione tra Stati Uniti ed Iran non accenna a diminuire, forse anche perché sono ormai imminenti le elezioni che determineranno l’identità del successore del presidente Hassan Rouhani e nessuno a Teheran vuole esporre il fianco all’avversario interno.

Si osserva così una certa paradossale continuità tra l’operato di Biden e quello del predecessore Trump, che pur usando la forza nella circostanza che poco più di un anno fa portò all’uccisione del generale Qassem Soleimani, non si era mai stancato di ricordare come il suo vero obiettivo fosse un nuovo accordo con Teheran.

Nessuno dubita che è ad una nuova intesa che si punta anche adesso, ma nessuna delle due parti vuole apparire debole. I riformisti iraniani, perché hanno i conservatori e i pasdaran alle costole. Lo stesso Biden, perché in Congresso un considerevole numero di parlamentari di entrambi i maggiori partiti è contrario ad una riconciliazione con Teheran.

Nel frattempo, l’amministrazione Biden ha messo nel mirino l’uomo forte di Riad, il principe ereditario Mohammed bin Salman, dimostrandone con un’inchiesta curata dalla propria intelligence il pieno coinvolgimento nel brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, firma autorevole del Washington Post, avvenuto nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018.

Non è che prima esistessero molti dubbi al riguardo, ma il carattere ufficiale dell’inchiesta può marcare un drammatico cambio di tono e di passo nei rapporti bilaterali intrattenuti dagli Stati Uniti con la corte di Riad.

La stampa americana ha fatto sapere di una telefonata che sarebbe intercorsa tra lo stesso Biden e re Salman, delle cui precarie condizioni di salute tuttavia si parla virtualmente dal giorno della sua ascesa al trono, in particolare alludendo alla patologia che ne starebbe gradualmente compromettendo le facoltà mentali. Non è quindi chiaro a quale risultato possa condurre un eventuale tentativo della Casa Bianca di separare il capo della dinastia regnante a Riad dal suo erede designato.

Appare invece sicuro che l’asse privilegiato stabilito da Trump attraverso il genero Jared Kushner con Mohammed bin Salman è ormai stato rimpiazzato da una politica di forte ingerenza negli affari interni al Regno.

Al pari di parecchie altre persone espostesi con il controverso predecessore, MbS, come viene spesso soprannominato, è ormai nel mirino di Washington, che ne desidera l’avvicendamento. La spinta è costante ed in crescita progressiva d’intensità.

È appena il caso di ricordare come il j’accuse americano contro MbS sia giunto dopo una serie di atti assai significativi, che hanno compreso tra l’altro anche il blocco temporaneo delle forniture militari statunitensi all’Arabia Saudita.

L’offensiva scatenata dall’amministrazione Biden contro MbS soddisfa naturalmente al massimo le richieste di tutti coloro che in America e nel mondo ritengono che la causa dei diritti umani debba prevalere sempre e a qualsiasi costo sul perseguimento della stabilità.

Ma è una scelta che implica un prezzo: colpendo uno degli architetti della politica sfociata nei cosiddetti Accordi di Abramo, ne mette infatti in pericolo la sopravvivenza ed il coronamento.

Di fronte a questa prospettiva, gli attori locali non sembrano però intenzionati a rimanere inerti. Sono preoccupati dal new deal impresso da Biden alla politica mediorientale americana, tanto sotto il profilo del riavvicinamento all’Iran quanto sotto quello della potenziale destabilizzazione dell’Arabia Saudita, che sotto MbS aveva fatto grandi passi nella direzione dello stabilimento di un’interlocuzione forte con Israele.

Proprio per questo motivo, non è facile derubricare a puro gossip diplomatico quanto si va sussurrando da qualche giorno sulla stampa internazionale, ovvero che Israele, Bahrein, Emiratini e Sauditi stiano seriamente considerando l’ipotesi di dar vita ad un’alleanza militare vera e propria. 

Se davvero all’interno dell’amministrazione Biden qualcuno sta pensando di riportare il Medio Oriente alle condizioni in cui si trovava alla fine del 2016 è quindi molto probabile che sia destinato ad incontrare resistenze molto più forti del previsto.

Lo smantellamento della rete di intese coagulate da Trump è certamente ancora possibile, ma sembra impraticabile senza l’eliminazione più o meno contestuale di tutti i principali attori politici che le hanno sottoscritte. Una spinta ad operarla è probabilmente in atto. Gli interessati hanno però compreso che possono salvarsi solo accelerando il percorso verso realizzazioni più solide e meno facilmente reversibili.

Sarà una corsa contro il tempo. Faranno prima sauditi ed israeliani a stringere un patto di mutua difesa, o gli Stati Uniti a riconciliarsi con Teheran e modificare nuovamente tutti gli equilibri regionali? La partita è appena iniziata.

https://it.sputniknews.com/opinioni/2021022810193741-attacco-simultaneo-agli-interessi-iraniani-e-allarabia-saudita-che-succede-in-medio-oriente/

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