La zona contaminataLa zona contaminata

BRASILE: UNA CITTA’ AVVELENATA. LA STORIA SCONOSCIUTA DI UNO DEI PIU’ GRANDI DISASTRI AMBIENTALI DEL PAESE   

Pedro Grigori, Agência Pública/Repórter Brasil

(Traduzione: Alessandro Vigilante)

 

Centinaia di tonnellate di pesticidi cancerogeni sono stati dimenticati negli anni ’60 dal governo federale nell’area di un orfanotrofio, i residenti subiscono ancora effetti sulla loro salute.

Un portale ad arco di colore giallo in stile architettonico messicano separa la “Cidade dos Meninos” [Città dei Bambini] dal resto del mondo. Eretta negli anni ’40, quella struttura dalla vernice consumata separa lo stato di Rio de Janeiro da un’area federale dimenticata nel tempo. Due guardie giurate fermano le auto sconosciute che cercano di entrare nella piccola comunità. Chiedono il nome degli estranei, dove stanno andando e qual è il rapporto con i residenti.

All’interno c’è un’area rurale nel mezzo della “Baixada Fluminense”, una delle regioni più violente del paese. Ma qui la sensazione è di pace e di enorme silenzio. L’intera comunità, dove vivono 1400 famiglie, è attraversata da una strada sterrata, Avenida Darcy Vargas. La first lady dell’allora dittatore brasiliano Getúlio Vargas ha avuto l’onore di aver avviato negli anni ’30 il progetto di costruzione di un collegio per orfani, che ha dato origine alla comunità.

Oggi non ci sono più internati alla Cidade dos Meninos. Anzi, è come se quella comunità si trovasse di fronte a una maledizione che impedisce a qualsiasi bambino di frequentare una scuola costruita su quel terreno. “Un mostro invisibile” è quello che evocano laggiù.

La comunità è teatro di uno dei più grandi disastri ambientali in Brasile. Ma, a differenza di altre contaminazioni da sostanze tossiche, la storia di Cidade dos Meninos è stata dimenticata. E il problema rimane irrisolto fino ad oggi.

Il primo avvertimento del disastro che ha marcato la storia dell’orfanotrofio e dei residenti è su un cartello, a meno di 1 km dall’ingresso: “PERICOLO – ZONA CONTAMINATA”.

I telefoni di emergenza elencati nell’avviso non funzionano più. Il cartellone è stato installato quasi tre decenni fa e segna anche l’ultima volta che il governo federale ha intrapreso un progetto per controllare la contaminazione da esaclorocicloesano, l’HCH. Una polvere bianca, dall’aspetto innocuo, è un pesticida organoclorurato meglio conosciuto come “polvere di piralide”. Il nome deriva da un coleottero che attacca la piantagione di caffè, la “piralide del caffè”.

In tempi di gloria, Cidade dos Meninos ospitava più di 1.200 orfani. Nei cinque decenni in cui ha operato, ha ospitato circa 5.000 orfani e bambini rimossi dalle strade di Rio de Janeiro e di altri stati del Brasile. Oltre a loro, la comunità ha accolto anche i dipendenti dell’orfanotrofio, che hanno acquisito case nella regione e costruito una famiglia. All’inizio degli anni ’90, la popolazione era di circa 5.000 persone.

Nell’anno in cui è stato inaugurato l’asilo, l’allora Ministero della Salute e dell’Istruzione ha installato l’Istituto di Malariologia in otto padiglioni non occupati dell’orfanotrofio. Inizialmente sarebbero state condotte solo ricerche sulla malaria. Ma, armati dal desiderio di trasformare il Brasile in una “potenza industriale”, tre anni dopo gli impianti iniziarono ad essere utilizzati per produrre insetticidi organoclorurati, come HCH e DDT – ora vietati su tutto il territorio nazionale – per uccidere la zanzara che trasmette la malaria.

Un decennio dopo, la fabbrica chiuse i battenti. I dipendenti sono stati trasferiti, lasciando dietro di sé forniture per ufficio, mobili e decine di barili di cartone contenenti circa 400 tonnellate di polvere di piralide pura.

“I residenti hanno pensato: se fosse pericolosa, il governo non la lascerebbe qui”, spiega Miguel da Silva, un leader della comunità. “Abbiamo usato la polvere di piralide per tutto. La mettevamo nelle case per uccidere le zanzare; se i bambini avevano i pidocchi, si radevano loro i capelli o si metteva della polvere di piralide sulla loro testa. Era una medicina santa”, ricorda la signora Maria Sarmento, 93 anni, una delle più anziane residenti della comunità.

Nelle mani dei bambini, il veleno è diventato un giocattolo. Si lanciavano addosso i sassi di polvere, come in una partita di paintball. Anche nelle ristrutturazioni e nelle opere pubbliche si usava il veleno. Almeno 360 tonnellate di polvere di piralide sono state sparse in tutta la Cidade dos Meninos in poco più di 20 anni.

Ma, a differenza di quanto affermato dai residenti all’epoca, la polvere di piralide non era una “medicina sacra”. Nel 1985, il pesticida fu bandito in tutto il Brasile e prima era già stato ritirato dal mercato in dozzine di paesi. Studi consistenti indicano che l’esaclorocicloesano può causare cancro, malformazioni fetali, aborti spontanei e disturbi del sistema nervoso. Se ciò non bastasse, la sostanza rimane estremamente persistente nell’ambiente e negli organismi umani e può impiegare decenni per essere degradata.

Sessant’anni dopo la chiusura della fabbrica di pesticidi, la polvere di piralide rimane presente nella comunità. E non solo nell’area della fabbrica o sui muri intonacati con il veleno. Il sangue del 95% dei 1.400 abitanti testati ha già mostrato allarmanti residui del cancerogeno, secondo la Fondazione Oswaldo Cruz (Fiocruz).

Si è messa in atto un’iniziativa di decontaminazione guidata dalla Nortox [il maggior produttore di pesticidi brasiliano] , ma ha solo peggiorato la situazione.

La contaminazione ha fatto chiudere i battenti all’orfanotrofio e alle scuole pubbliche. E con loro, si sono estinti i restanti posti di lavoro. I residenti non potevano nemmeno coltivare nulla o allevare animali. Nel 1999, tutti gli animali della Cidade dos Meninos sono stati sacrificati per ridurre la contaminazione, che comprende carne e prodotti a base di carne.

Nonostante ciò, ci sono ancora persone che vivono alla Cidade dos Meninos. I “nativi”, come vengono chiamati i residenti più anziani, stanno combattendo una lotta decennale per rimanere nella comunità tra l’incuria del governo e il numero allarmante di casi di cancro.

Nel luogo dove un tempo si trovava la fabbrica di pesticidi, oggi c’è una piantagione di eucalipti, fatta su misura per essere una sorta di muro naturale, impedendo al vento di portare residui di pesticidi al resto della comunità.

Miguel, residente della comunità, ha partecipato a diverse cause legali per decontaminare l’area. Ha raccontato la storia di Cidade dos Meninos in conferenze, udienze pubbliche e incontri con consiglieri comunali, deputati statali e federali e persino con ministri della salute, ha assunto la carica di portavoce della popolazione presso il governo e si è recato più volte a Brasilia su invito del il governo federale per discutere il futuro della comunità. Nel 1992 riuscì a portare l’allora ministro della Salute, Adib Jatene, a visitare personalmente l’area contaminata.

“Ciò che deve andarsene è la polvere, non noi”, risponde, quando gli viene chiesto perché lui e la sua famiglia sono ancora lì. Miguel è un vicino dell’ex fabbrica di pesticidi. Tutte le case più vicine alla zona sono state espropriate e demolite.

Lottare per decenni per la decontaminazione di Cidade dos Meninos non ha portato apprezzamenti. Anzi: ha persino ricevuto una minaccia di morte. 

A 58 anni, Miguel ha passato dei bei momenti. Esperienze che lo hanno reso un ottimo narratore. Ha una laurea in geografia, ha già prestato servizio nell’esercito, è stato assessore all’ambiente nel Comune di Duque de Caxias e si è candidato a consigliere comunale proprio per usare il tempo necessario alla propaganda per parlare della polvere di piralide.

“Sono nato nel 63, a Madureira, e sono arrivato qui nel 65. Ho imparato a camminare alla Cidade dos Meninos”, dice Miguel, mentre prende una sedia al bar.

Figlio di un macellaio, è arrivato con la famiglia da bambino, invitato da uno zio che lavorava all’orfanotrofio. Miguel ha studiato alla scuola municipale Sarah Kubitschek, insieme agli orfani. 

A 93 anni, Maria Sarmento è la residente più anziana della comunità. Ha tra le mani un album di foto. Il dito rugoso con le unghie rosse indica un’immagine in bianco e nero. “Qui c’era un piccolo lago, ma è stato riempito a causa della polvere di piralide. Non potevamo nemmeno più pescare il pesce”, spiega.

La famiglia era arrivata nella zona nel 1949, due anni dopo l’apertura del rifugio per orfani. Lei era un’assistente infermiera e suo marito, Mario, era un infermiere. “Quando è stata aperta la fabbrica di polveri di piralide, nel rifugio doveva esserci una parte sanitaria, siamo venuti a prenderci cura dei ragazzi”, dice Dona Maria.

“La Cidade dos Meninos era diventata la ‘città delle ragazze’”, ricorda. La First Lady Darcy Vargas, moglie dell’allora dittatore Getúlio Vargas, è stata l’ideatrice del progetto originale. Sarebbero state costruite 80 grandi residenze. In ognuna, una famiglia sarebbe stata responsabile dell’educazione di 20 ragazze orfane. Quando sarebbero diventate maggiorenni, avrebbero acquisito la propria residenza, dove avrebbero iniziato a crescere altre 20 ragazze, continuando il progetto.

A partire dal 1939, Darcy iniziò a organizzare eventi per raccogliere donazioni per la costruzione del complesso. Accanto al portale di architettura messicano, ha costruito una casa da tè, dove ha riunito persone mondane e uomini d’affari brasiliani per far loro aprire i portafogli. Furono costruite otto case, ma non ricevettero mai un solo orfano. La fine del governo Vargas, nel 1945, vanificò i piani dell’allora First 

L’anno successivo, Levy Miranda, presidente della Fundação Abrigo Cristo Redentor e amico personale di Darcy Vargas, ricevette il terreno per la fondazione dell’ex first lady e continuò il progetto. L’orfanotrofio è stato aperto nel 1947. Solo per ragazzi.

Ci sono diverse spiegazioni per il cambiamento di progetto. Quella ufficiale, registrata nella biografia di Miranda, è che sarebbe “molto difficile e di maggiore responsabilità impegnarsi nell’assistenza alle giovani donne”. Residenti e storici affermano che la fondazione temeva che le orfane sarebbero rimaste incinte mentre erano in ospedale; era prioritario investire sul lavoro maschile per l’espansione economica; ed era più facile dare un incarico ai ragazzi quando compivano 18 anni mandandoli nell’esercito.

Dona Maria abita in una delle case costruite per la “Città delle ragazze”. Seduta su una sedia davanti a una grande finestra blu, mette in mostra l’ampio soggiorno. “È una casa molto bella, molto ben costruita. Resiste persino agli uragani. Ma è enorme, è stata costruita per 20 ragazze”. È così grande che è stata diviso in due. Lei vive nella parte anteriore, mentre nella parte posteriore vive l’ottantacinquenne Tereza da Silva. Dopo aver sentito il rumore dei visitatori, Terezinha appare presto nel portico della vicina.

Dona Tereza è arrivata nel 1960 con suo marito, che era orfano al rifugio ed è tornata anni dopo come dipendente dell’istituto. “C’era molta vita qui, molte feste”, dice Terezinha. “Mio marito è morto, ma oggi vivo qui con le mie nipoti e molte donne vengono a trovarmi”.

L’istituto ha aperto le sue porte ancor prima di essere completamente costruito. Nel 1953 fu completato il padiglione dell’Istituto Nossa Senhora da Paz; nel 1955 l’Istituto Don Bosco; nel 1958, la Scuola Darcy Vargas; nel 1964, l’Istituto Professionale Getúlio Vargas. Gli alloggi dei ragazzi erano suddivisi in questi quattro istituti, dove erano separati per età e titolo di studio.

Oltre a studiare, dormire e mangiare, essi partecipavano a corsi professionali di meccanica, tornio, saldatura, lavorazione dei metalli e così via. Le attività extra-classe erano svolte nella zona agricola. La comunità piantava il proprio cibo e aveva allevamenti di bovini, pollame e suini. Producevano tutto il cibo che consumavano e c’erano anche gli eccedenti da vendere ai comuni limitrofi.

Gli studenti che lavoravano nei campi ricevevano una remunerazione per il loro lavoro e venivano orientati a depositare i loro guadagni in un libretto di risparmio in modo che potessero avere un piccolo capitale quando uscivano dall’orfanotrofio.

Una fabbrica di veleni

Molto prima della pandemia di Covid-19, la malaria era la principale malattia infettiva del Paese. Nella prima metà del secolo scorso, la regione della Baixada Fluminense era uno dei principali focolai della malattia. Fu in questo contesto che il Ministero dell’Istruzione e della Salute approfittò di otto padiglioni non occupati alla Cidade dos Meninos per installare l’Istituto di Malariologia nel 1947, lo stesso anno di fondazione dell’orfanotrofio.

Gli obiettivi dell’istituto erano “effettuare studi, ricerche e indagini sulla malaria”. Così, una fabbrica di insetticidi è stata creata nel sito appena due anni dopo la sua apertura nel 1949, come descritto in un rapporto del Ministero della Salute del 2002.

“Libereremo l’economia nazionale dal pesante fardello dell’importazione di prodotti chimici”, ha affermato Pedro Calmon, ministro dell’Istruzione e della Sanità nel governo Eurico Gaspar Dutra, durante l’inaugurazione della fabbrica di pesticidi HCH nel mezzo della Cidade dos Meninos .

Con lettere ufficiali datate 1947-1960, la fondazione presentava diverse denunce al Ministero dell’Istruzione e della Sanità, affermando che l’area dell’istituto veniva ampliata senza consenso. Reclamava per la vicinanza dell’insetticida ai minori residenti nei rifugi e segnalava anche che parte dei dipendenti della fabbrica erano di cattivo esempio per i minori detenuti.

Successivamente, lo stabilimento dell’Istituto Malariologico è stato ampliato e la sua gestione è stata trasferita al Dipartimento Nazionale delle Endemie Rurali del Ministero della Salute, aumentando il numero di insetticidi prodotti. Iniziarono a essere fabbricati diversi prodotti chimici, come paste dell’insetticida DDT e BHC, 1080 (monofluoroacetato di sodio) e cianuro di calcio, tutti sottoprodotti dell’HCH. La fabbrica iniziò anche a produrre medicinali, come penicillina, tetraciclina e altri.

La produzione è stata completamente chiusa solo nel 1960, a causa di diverse richieste della Fondazione Abrigo Cristo Redentor. Il settore farmaceutico è stato trasferito a Manguinhos, nella città di Rio de Janeiro.

Lo stesso non è accaduto con gli impianti delle fabbriche agrochimiche. Attrezzature, fusti contenenti materie prime e rifiuti impropriamente collocati a terra sono stati abbandonati negli impianti di Cidade dos Meninos.

All’epoca i problemi causati dai pesticidi erano poco conosciuti. “Oggi si sa che queste sostanze sono estremamente dannose per la salute”, spiega la dottoressa in sanità pubblica e ambiente della Fondazione Fiocruz, Ana Cristina Simões Rosa. “La loro struttura chimica è simile ai nostri ormoni naturali, il che facilita il loro ingresso nei percorsi del metabolismo”, spiega. Una volta nel corpo, le conseguenze sono enormi: “sono sostenze cancerogene. Agiscono nella deregolazione del sistema endocrino e nelle modificazioni del sistema nervoso e neurocognitivo”.

Le agenzie di regolamentazione hanno scoperto anche un’altra caratteristica preoccupante delle sostanze: l’accumulo nell’ambiente. “Gli organoclorurati hanno una struttura chimica molto stabile nell’ambiente e nel corpo umano, ed è per questo che impiegano anni per degradarsi. Usare una sostanza che non si degrada nell’ambiente come insetticida è una bomba permanente”, completa il ricercatore della Fiocruz.

Ma il Brasile ha vietato la polvere di piralide in agricoltura solo nel 1985 e il prodotto è stato utilizzato nelle campagne contro le malattie fino al 1995.

Autrice di uno dei principali lavori accademici sulla Cidade dos Meninos, la ricercatrice Rosália Maria de Oliveira spiega che, nonostante gli avvertimenti della comunità scientifica, il governo ha usato negligentemente pesticidi organoclorurati a causa della convinzione nel “progresso”. “Il campo di visibilità delle autorità scientifiche era delimitato dalla convinzione nei benefici apportati dai progressi scientifici e tecnologici”, afferma.

Sotto la pioggia e il sole, i barili di cartone si sono disintegrati e la polvere di piralide è rimasta a terra. In fabbrica furono dimenticate anche altre sostanze chimiche, ma a tutt’oggi non è chiaro quali. Solo di HCH, si è trattato di 300/400 tonnellate, secondo la Fondazione statale per l’ingegneria e l’ambiente (Feema) di Rio de Janeiro.

Senza alcun preavviso o segnale di pericolo, la popolazione entrava e usciva dalla vecchia fabbrica. “Il nostro modo di giocare qui era la guerra con la polvere di piralide. C’erano molti nascondigli all’interno della fabbrica, quindi siamo andati lì. La polvere di piralide si sbriciolava quando colpiva qualcuno. Così la si raccoglieva da terra e la si lanciava contro gli altri ragazzini”, racconta Miguel, mentre cammina nel bosco vicino all’area della fabbrica.

I bambini spremevano le valvole delle bombole di cloro per vedere uscire il “gas giallo” e se lo lanciavano addosso. Trovate nei cassetti, le polveri dei più svariati colori venivano trattate come reliquie.

La famiglia di Miguel era tra coloro che credevano che i pesticidi fossero una medicina, e il veleno veniva persino usato sulle testa dei ragazzi per uccidere i pidocchi. “Ora sono quasi calvo, ma avevo i capelli lunghi”, dice ridendo. “Ho mescolato la polvere di piralide con lo strutto, ho fatto quella pasta, ho messo un po’ di zolfo giallastro che c’era anche sul pavimento della fabbrica, l’ho messo in testa e ho anche legato un sacchetto per farle fare effetto. Quindi, se si è contaminati solo toccando quella polvere o mangiando la frutta che nasce qui intorno, immagina mettendocela sulla testa. È stata un’overdose di polvere di piralide”, aggiunge.

Adulti e dipendenti dell’istituto hanno approfittato del sito della fabbrica e dei materiali avanzati per raccogliere le tegole per costruire baracche o pollai. “Dato che qui non c’era nessuno a vigilare, i prodotti rimasti lì sono diventati di tutti”, racconta.

La polvere di piralide è finita persino nei mercati di strada a Duque de Caxias, dove è stata venduta dai residenti in pacchi avvolti in giornali. E questo è il motivo che ha portato il caso alla stampa, ma solo nel 1988. È apparso sul quotidiano Última Hora, con il titolo “La polvere tossica minaccia un quartiere”. L’articolo parla della vendita della polvere di piralide nei mercati, riporta che i bambini di Cidade dos Meninos soffrivano di problemi respiratori, allergie, vertigini e nausea. I residenti hanno riferito che la carne e il latte degli animali nella regione avevano “odore e sapore sgradevoli”.

Ma la storia ebbe ripercussioni solo nel luglio 1989, quando i giornali O Dia, O Globo e Jornal do Brasil iniziarono a pubblicare storie sulla contaminazione. Quello stesso mese, la Fondazione statale per l’ingegneria e l’ambiente di Rio de Janeiro (FEEMA) ha ispezionato il sito e ha trovato circa 40 tonnellate di polvere di perforazione pura. Il prodotto è stato rimosso e portato ad essere incenerito a San Paolo. La FEEMA ha stimato che circa 350 tonnellate della sostanza chimica sono state disperse e hanno raccolto campioni di terreno e frutta da Cidade dos Meninos. Il risultato ha mostrato la presenza di HCH in tutti i residui analizzati.

È così che la Fondazione Fiocruz è entrata nel caso. Tre anni dopo, i risultati dei test di laboratorio hanno identificato la presenza di HCH nei campioni di sangue di 31 persone di sette famiglie che vivevano a meno di 100 metri dalla vecchia fabbrica.

Ma l’interesse pubblico per Cidade dos Meninos non durò a lungo. La tesi di dottorato della ricercatrice della Fondazione Fiocruz Rosália Maria de Oliveira ha analizzato tutti gli articoli pubblicati sulla contaminazione tra gli anni 1940 e il 2006, anno di pubblicazione del lavoro. La stampa ha seguito da vicino il caso nei primi anni ’90, ma con il passare degli anni il numero delle pubblicazioni è diminuito e la tragedia è stata dimenticata, anche senza che fosse risolta.

Miguel do Pó [Miguel della Polvere] ha perso due fratelli a causa del cancro

Nello stesso momento in cui è stata scoperta la contaminazione, una tragedia ha trasformato il giovane Miguel in “Miguel della polvere”. “Mio fratello minore è morto di cancro al fegato. Aveva solo 19 anni. Quando abbiamo scoperto cosa poteva fare la polvere di piralide, ho pensato che la sua morte aveva qualcosa a che fare con questo. E ciò mi ha causato una grande rabbia”, racconta.

All’inizio di quest’anno, Miguel ha perso un altro fratello, il più vecchio. “Ha iniziato a costruire una casa qui, per sopravvivere fino alla morte. Ha affrontato a lungo il cancro ai polmoni, ma di conseguenza il suo corpo si è indebolito ed è morto di cuore”, racconta, mostrando la struttura di una casa incompiuta. La residenza si trovava a ridosso della recinzione che separa l’area dall’ex fabbrica di pesticidi. “Non credeva nella tossicità della polvere di piralide. Almeno 18 persone sono morte di cancro da queste parti”, dice.

Uno studio condotto nel 2002 dal ricercatore della Fiocruz Sergio Koifman ha collegato l’esposizione alla polvere di piralide all’insorgenza del cancro nella regione. Durante gli anni ’80 e ’90, i residenti che vivevano entro 12 km dall’area della fabbrica presentavano un forte aumento della mortalità per tumori del pancreas, del fegato, della laringe, della vescica ed ematologici negli uomini e per cancro del pancreas e tumori ematologici nelle donne, rispetto ai gruppi di popolazione che vivevano in aree più remote.

Guidati da Miguel, nel 1990 i residenti hanno avviato un’azione civile pubblica con una denuncia al Ministero Pubblico dello Stato di Rio de Janeiro contro lo Stato Brasiliano per danni causati alla salute e all’ambiente.

Anche la Procura Generale di Rio de Janeiro ha aperto un’inchiesta civile per indagare sui danni alla salute e all’ambiente causati dall’HCH. È stata riconosciuta la responsabilità del Ministero della Salute per l’abbandono del prodotto nell’area. Nel 1990 la Corte ha chiesto al Ministero di adottare misure urgenti per ridurre l’esposizione della popolazione e dell’ambiente.

Dal processo è nata la recinzione che isola l’area della fabbrica. Nel 1995 la protezione è stata costruita circondando solo circa 40.000 mq dell’area dello stabilimento, e cinque anni dopo è stata ampliata a 70.000 mq, includendo anche le case di dieci famiglie vicine.

Realizzata in cemento, con una rete in acciaio rinforzato per non lasciar passare animali o umani, l’opera non ha mai ricevuto la necessaria manutenzione. Ne sono prova i vari fori che lasciano libero il passaggio al suo interno, dove ci sono le zone contaminate.

Gli animali di una fattoria vicina entrano nell’area contaminata per pascolare. “Il latte di queste mucche viene venduto in giro. Sia il latte che il formaggio”, dice Miguel. “Dovremmo allestire una bancarella e vendere i prodotti della Cidade dos Meninos davanti al ministero della Salute. È l’unico modo per fare scalpore”, aggiunge.

Quando HCH contamina il suolo, gli animali che mangiano l’erba sono contaminati. “Se è un mammifero, come una mucca o un essere umano, questa sostanza si accumulerà nel tessuto adiposo. Nell’atto dell’allattamento al seno la sostanza viene assunta attraverso il latte”, spiega la ricercatrice della Fiocruz Ana Cristina.

Odore di muffa e naftalina

La fabbrica è stata definitivamente demolita nel 1995. Ma nel sito si sente ancora un forte odore che assomiglia ad un misto di naftalina e muffa. “Quasi 30 anni dopo la demolizione e la rimozione della polvere di piralide, si sente ancora l’odore”, afferma Miguel. Prende un bastone e colpisce il terreno. “Guarda, questa è polvere di piralide, polvere pura”, dice mentre fa scorrere il dito sulla sostanza bianca. Nella stessa zona, c’è ancora uno scheletro di qualche animale che vi morì.

La natura si è impadronita del territorio dell’ex fabbrica. Oggi, le piante di frutta, di mandarino, condividono lo spazio con alcune strutture ancora in piedi. “Se trovo un frutto, te lo do da mangiare. Non è un veleno che ti uccide immediatamente, è bioaccumulabile”, dice ridendo al giornalista. Significa che l’effetto non è immediato, la sostanza viene assorbita dall’organismo e può generare malattie croniche se assunta in grandi quantità.

Sul pavimento ci sono ancora confezioni di plastica dei prodotti utilizzati in fabbrica e pezzi di grossi tubi di ceramica che contenevano alcune sostanze chimiche. “Ci nascondevamo qui dentro questi tamburi. Cosa c’era dentro di loro prima, non lo sapremo mai”, dice.

Mentre mostra le rovine della fabbrica, Miguel ricorda che lo stesso giorno in cui ricevette la notizia dal governo che i fondi per l’opera erano stati svincolati, nel 1993 il tribunale decise di chiudere tutte le scuole e l’orfanotrofio della Cidade dos Meninos . “Molte persone pensano che sia colpa mia. Dicono che sono stato responsabile della chiusura delle scuole, della fine dell’istituto. Anche oggi c’è chi lo pensa».

Venticinque anni dopo la chiusura, Miguel deve ancora spiegare ai suoi vicini di non essere il responsabile.

“Sono nato dopo la chiusura della fabbrica, non sono stato io a lasciare qui questo veleno”, si sfoga.

La chiusura completa dell’orfanotrofio è avvenuta solo nel 1996, quando il Ministero della Previdenza e dell’Assistenza Sociale ha rescisso tutti gli accordi firmati dalla Legione Brasiliana di Assistenza, che amministrava l’area. Di conseguenza, sono stati trasferiti circa 650 bambini rimasti nelle strutture. L’istituto della Cidade dos Meninos è stato definitivamente disattivato.

Veleno del sangue

Ciò che ha basato la decisione del tribunale di chiudere l’orfanotrofio è stata un’indagine della Fondazione Fiocruz che ha analizzato il sangue di 186 internati dell’istituto ed ha individuato in un quarto dei campioni concentrazioni di HCH molto al di sopra dei livelli riscontrati nei bambini della stessa fascia di età, ma che vivevano in regioni dove non c’erano fonti di contaminazione. Il che provava che la fabbrica abbandonata aveva davvero contaminato gli studenti.

Uno dei membri degli ultimi gruppi del collegio è Rômulo de Carvalho, che continua a vivere alla Cidade dos Meninos. Rômulo aveva 14 anni quando è arrivato all’orfanotrofio nel 1989.

“Non avevo una famiglia, non avevo nessuno”, dice. Oggi ha 46 anni e vive nel vecchio edificio dell’Istituto Getúlio Vargas. “Qui si stava molto bene, non ci è mancato nulla. Al mattino studiavo e al pomeriggio avevo delle attività da fare, lavoravamo nell’orto, nel panificio e nella stalla. Avevamo tutto”, ricorda. Il padiglione in cui viveva ospitava corsi di musica, una biblioteca e persino un teatro.

Nel 1993, dopo la decisione del tribunale, Rômulo è stato trasferito all’Asilo di São Bento, nel centro di Rio de Janeiro, dove è rimasto per alcuni mesi, fino all’età di 18 anni. Dopo di che è andato a vivere per strada.

Cinque anni dopo, Rômulo è tornato alla Cidade dos Meninos e all’Istituto Getúlio Vargas, ma questa volta non come studente. “Ho improvvisato una casetta per me”, racconta, davanti alla facciata della vecchia scuola.

Rômulo invita il reporter a visitare la sua casa. Il soggiorno e la cucina si trovano in quella che era l’ufficio di amministrazione della scuola, e la stanza dove dorme con la moglie ei tre figli è nel luogo precedentemente occupato dall’ufficio del preside.

“Non avrei mai immaginato che un giorno avrei dormito nell’ufficio del preside. Me ne andrei anche da qui, ma non posso permettermelo”, dice, con un timido sorriso e accendendo il ventilatore utilizzato per rinfrescare la stanza, che non era strutturata come abitazione.

Rômulo è disoccupato, ma fa lavoretti per mantenere la sua famiglia. Aiuta nei cantieri, pulisce le erbacce, coglie ogni opportunità che si presenta. “Ma con questa pandemia è stato difficile”, si sfoga.

Ci mostra che quello che era il corridoio della scuola sarà presto la casa della sua ex moglie. “L’ho chiuso qui con un muro di separazione e sto costruendo le pareti con una buona terra nera che trovo nei paraggi. Questo sarà il suo armadio».

Nel cortile di fronte all’istituto, ha improvvisato un’altalena su un albero per i bambini, un tentativo di trasformare la scuola abbandonata in una casa.

Oltre a lui, altre dieci famiglie vivono nell’edificio dove un tempo si trovava l’Istituto Getúlio Vargas. Dei quattro edifici dell’orfanotrofio, tre sono stati invasi e trasformati in decine di case. Una chiesa neo-pentecostale è stata allestita in quella che era un’aula scolastica.

Rômulo garantisce di non aver paura degli effetti dei pesticidi. “Mangio frutta di qui. Giocavo in quest’area, prendevo in mano la polvere di piralide per uccidere le formiche. Molte persone qui muoiono di cancro, ma nessuno sa se è il veleno o no. Ci sono persone anziane qui, dai tempi della polvere insetticida, che sono ancora vive oggi”, sostiene.

L’ex internato e sua moglie si sono sottoposti a diversi esami del sangue dal 1993 ma non hanno mai ricevuto un solo risultato. “È una prova della contaminazione, non ce la danno, altrimenti dovrebbero pagarci un risarcimento”.

Il più grande rammarico per la polvere di piralide, per Rômulo, è la chiusura delle scuole e del rifugio. “Il nostro amico Miguel, che è andato a sollevare il caso, li ha incoraggiati a intervenire, e poi è finita che hanno chiuso tutto. Se Miguel non si fosse interessato, non avrebbero chiuso”, dice.

L’Associazione di residenti

L’Associazione dei residenti e degli amici della Cidade dos Meninos è stata creata da Miguel nel 1987. Oggi il presidente è Avelino da Silva, 63 anni. La domenica in cui siamo stati nella comunità per realizzare questo articolo abbiamo avuto un incontro con alcuni membri. Oltre a Miguel e Avelino, erano presenti anche il direttore finanziario, Renato dos Santos, e il vicepresidente, Jair Jovelino.

Avelino è arrivato in comunità dopo la chiusura della fabbrica e ha ancora residui di pesticidi nel corpo. “Ho i documenti e gli esami della Fondazione Fiocruz che dimostrano che soffro di contaminazione da HCH. A casa io e mio figlio siamo contaminati”, racconta il presidente dell’associazione.

Avelino entra in un ufficio improvvisato dell’associazione per cercare una cartella con i documenti. Lì, un’immagine di Santa Margherita benedice quella che un tempo era un’aula scolastica. Quando torna, cammina molto lentamente. “Ho avuto un ictus”, dice per spiegare perché zoppica.

Tre anni fa è stato in coma per tre giorni dopo un ictus. Quando non uccide subito, l’ictus lascia conseguenze come la paralisi. “Uno dei principali effetti dell’HCH è sul sistema nervoso. Ho avuto questo problema, una vescica nel cervello, ma non so se è stata una conseguenza della contaminazione o perché lavoro troppo”, dice.

Renato, 69 anni, che vive alla Cidade dos Meninos dal 1980, non ha mostrato residui di polvere di piralide nel sangue. Sua moglie invece, che era un’impiegata della fondazione, è risultata positiva alla contaminazione.

La “soluzione” utilizzata dalla Nortox [il maggior produttore di pesticidi brasiliano] ha peggiorato la situazione

Nel 1993, diverse agenzie federali, statali e municipali hanno firmato un protocollo per l’adeguamento della condotta e degli obblighi sulla contaminazione alla Cidade dos Meninos. Nel primo comma, il Ministero della Salute si è assunto la responsabilità della “decontaminazione completa e permanente dell’area denominata Cidade dos Meninos, nonché dell’assistenza alla popolazione colpita dalla contaminazione da HCH dalla sua fabbrica estinta, fornendo tutte le risorse necessarie per la messa in atto delle misure proposte dagli organi tecnici”.

Per decontaminare l’area, il Ministero della Salute ha scelto uno dei maggiori produttori nazionali di pesticidi, la Nortox Agro Química. Nel 1992, la Nortox, insieme all’Università Statale di Campinas (Unicamp), decise di utilizzare la calce viva per coprire l’area contaminata.

Prima dell’applicazione, la Nortox ha eseguito analisi cromatografiche su 26 campioni di terreno contaminato a cui è stata miscelata calce in laboratorio. I test hanno mostrato una disattivazione dell’ordine del 72% di HCH dopo 22 giorni di applicazione della calce, in condizioni di laboratorio.

L’operazione è diventata un evento comunitario, e i residenti hanno seguito da vicino la demolizione della fabbrica e l’applicazione della calce, avvenuta nel settembre 1995. “Hanno demolito tutto, hanno fatto una montagna di macerie. Poi hanno perforato un pozzo, hanno gettato tutto dentro, hanno messo in funzione una pompa che ha gettato la calce viva sopra ogni cosa. Hanno mescolato e annaffiato ogni giorno, dopo che la calce ha ricoperto tutto, hanno fatto i lavori di sterro”, racconta Miguel.

Miguel afferma che il periodo di azione della Nortox è stato il “periodo peggiore” per i residenti. “Hanno creato un problema più grande. Era il periodo in cui moriva la maggior parte dei vicini”, garantisce. Diversi vicini sentiti hanno riferito della stessa situazione.

Siccome viveva nella casa più vicina alla fabbrica, Miguel ha accompagnato i tecnici della Nortox sul posto. “Sono rimasti sorpresi dalla quantità di sostanza, hanno detto: ‘L’odore è forte, è organoclorurato, è in tutte le profondità, scaviamo qui 5 metri e lo troveremo comunque'”.

Miguel ha raccontato ai ricercatori della Pontificia Università Cattolica (Puc) quello che aveva sentito, temendo che la soluzione adottata dall’azienda non avrebbe funzionato, cosa che ha finito per essere confermata. I ricercatori del PUC e dell’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ) hanno portato il caso all’Ufficio del Procuratore Generale di Rio de Janeiro. Hanno affermato che il processo di applicazione della calce viva avrebbe potuto comportare la formazione di composti più tossici e volatili, oltre ad aumentare la possibilità di contaminazione delle acque sotterranee e l’espansione dell’area contaminata.

Il Ministero della Salute ha affermato che il trattamento aveva rimosso il 98% dei contaminanti. E la Nortox lo ha confermato. “Data la situazione che ha regnato nel luogo per lunghi 30 anni, le quantità esistenti di tossico attivo non rappresentano più alcuna minaccia per la popolazione e per l’ambiente”, dichiarava l’azienda nel 1996, in un rapporto sulla bonifica.

Ma almeno dieci sondaggi negli anni successivi hanno dimostrato che il trattamento con la calce era inefficace. Due di esse sono tesi di laurea presentate alla Fondazione Fiocruz in cui vengono riportate analisi di campioni di suolo raccolti dal 1994 al 1999. Il terzo è stato il rapporto “Indagine sulle aree contaminate da HCH – Cidade dos Meninos”, realizzato dalla FEEMA, dalla CETESB [Istituto brasiliano che rilascia licenze ambientali] e dall’Agenzia tedesca per la cooperazione tecnica.

L’analisi effettuata dalla ricercatrice della Fiocruz Lúcia Helena Pinto Bastos nel 1999 è andata oltre e ha mostrato che il tentativo frustrato di soluzione realizzato dalla Nortox ha peggiorato la situazione. Nel 1989 la FEEMA aveva stabilito che l’area contaminata era di 13mila metri quadrati. Tuttavia, l’area in cui la Nortox ha seppellito i rifiuti tossici della demolizione della fabbrica trattati con la calce era di 33mila metri quadrati. Poiché la decontaminazione non è andata a buon fine, tutto il terreno che è entrato in contatto con il prodotto è finito per essere contaminato, triplicando le dimensioni dell’area interessata.

“Anche dopo il trattamento, l’odore di muffa, caratteristico dell’HCH, è rimasto nell’area interessata, indicando l’inefficacia del processo. Inoltre, considerata la stabilità chimica dell’HCH, è improbabile che la reazione chimica di degradazione dell’HCH a triclorobenzene (TCB), in presenza di calce, si verificasse in condizioni ambientali blande e senza controllo della reazione”, ha identificato lo studio.

Quando è stato contattata, la Norton ha risposto che non commenterà la questione.

Mentre la contaminazione continuava, il Ministero della Salute ha iniziato a cercare nuovi metodi per porre rimedio alla situazione dell’area. Esso ha consultato le ambasciate di Giappone, Germania, Paesi Bassi, Stati Uniti d’America, Regno Unito e Canada. Ma ad oggi nessuna proposta è stata portata avanti.

Mezzo secolo dopo, il 73% dei residenti è ancora contaminato

Nel 2000, il Ministero della Salute ha effettuato un’importante valutazione del rischio nel suolo, nell’acqua, nell’aria, nel cibo e nel sangue della popolazione della Cidade dos Meninos. Il risultato è stato divulgato solo nel 2005, per la forte pressione dei residenti, che hanno minacciato di andare in tribunale con un mandato di perquisizione e di sequestro dei verbali.

I test di laboratorio sono stati effettuati dalla Fondazione Fiocruz. Il risultato ha mostrato che circa il 95% dei 1.400 residenti testati era contaminato, con il 30% che mostrava livelli elevati di tossicità. Solo nel 2% della popolazione non è stata riscontrata alcuna prova di contaminazione.

Ana Cristina, che lavora presso il Centro per lo studio della salute sul lavoro e dell’ecologia umana (Cesteh) della Fiocruz, responsabile dei test, spiega: “Lo studio ha rilevato che la popolazione presentava alterazioni degli ormoni tiroidei. Alterazione degli ormoni di testosterone negli uomini e degli estrogeni nelle donne”.

La rilevazione successiva è iniziata solo nel 2018 e, a causa della pandemia, non è stata ancora completata.

Ma la nostra rivista ha avuto accesso a un referto consegnato ai residenti con i risultati degli esami del sangue effettuati fino al 2019. Al test hanno partecipato 715 persone. Residui di organoclorurati, come HCH e DDT, sono stati trovati nel 73,5% dei casi.

L’esame ha evidenziato anche buone notizie. La contaminazione è dieci volte inferiore a quella riscontrata nei test rilasciati nel 2005. “Queste molecole si degradano nel tempo”, spiega Ana Cristina.

Ora, i residenti si lamentano del monitoraggio sanitario. Quando qualcuno si sente male, il servizio più vicino è un piccolo ambulatorio nella comunità, con un solo dottore. Secondo il Ministero della Salute, l’Unità sanitaria di base della Cidade dos Meninos impiega sei agenti comunitari, un’infermiera, un tecnico infermieristico e un dentista, oltre a un assistente per la salute orale.

Il rapporto ha chiesto al Ministero della Salute se fossero già stati definiti nuovi piani di decontaminazione per la Cidade dos Meninos, ma non ha ottenuto alcuna risposta.

“Siamo un incidente ambientale”, dice Fernanda de Barros, seduta dietro il bancone del piccolo bar “la Toca di Raul”. L’idea di aprire un bar in campagna può sembrare un pessimo affare, ma lei mi assicura che non lo è. I clienti sono principalmente colleghi, un pubblico “più ristretto”, come dice lei, e a cui piacciono le canzoni che suonano lì. Il vecchio rock, il più delle volte.

“È molto bello vivere qui, non c’è pericolo, né i proiettili vaganti frequenti nelle favelas”, dice mentre guarda suo figlio di 5 anni giocare nel cortile di casa. “È un buon posto per costruire una famiglia”, aggiunge.

Dall’altra parte del cancello d’ingresso alla Cidade dos Meninos, le favelas della Baixada Fluminense hanno i più alti tassi di criminalità di Rio de Janeiro. È il luogo in cui si verificano la maggior parte delle aggressioni in strada, dei furti di auto e di rapine negli autobus. Un rapporto della piattaforma collaborativa “Fuoco Incrociato” ha mostrato che solo nel 2020 nella regione sono state registrate 1.033 sparatorie: 293 persone sono morte, otto delle quali sono state vittime di proiettili vaganti. E sei erano bambini. Duque de Caxias è stato il comune che ha registrato il maggior numero di sparatorie.

I dati aiutano a spiegare perché la maggior parte dei “nativi” la pensano come Fernanda. Non vedono alcun motivo per lasciare la comunità, anche se vivono da decenni a rischio di vedersi espropriare la casa, come è successo a molti residenti.

Quando i dipendenti sono venuti a lavorare nell’orfanotrofio, hanno ricevuto case in cui vivere, e decenni dopo il governo ha affermato che aveva bisogno della restituzione della proprietà. “Hanno portato la famiglia fuori di casa e poi l’hanno demolita. In altre parole, non ne avevano bisogno. Volevano solo portare le persone fuori di qui”, dice Miguel.

Nel 1999, il Ministero della sicurezza e dell’assistenza sociale, responsabile dell’area, ha creato una commissione tecnica, insieme al governo dello Stato di Rio de Janeiro e al comune di Duque de Caxias, per definire l’uso futuro dell’area della Cidade dos Meninos. L’anno successivo, dieci famiglie furono allontanate dall’area vicino alla vecchia fabbrica. Il Ministero della Salute aveva assunto la responsabilità di garantire l’affitto di appartamenti per queste dieci famiglie fino alla costruzione di nuove abitazioni nelle aree decontaminate della Cidade dos Meninos, ma non è mai successo.

Nel 2003, quasi 400 residenti si sono registrati per essere trasferiti dall’area contaminata e ricevere un risarcimento. Cosa che non è mai successa.

“I residenti non fanno mai parte dei piani”, afferma Jair Jovelino, vicepresidente dell’associazione dei residenti. “Se dovremo andar via, l’associazione si batterà affinché possiamo avere le condizioni per vivere in altro posto. Non vogliamo finire in un’area comandata dalle milizie. Qui abbiamo pace e tranquillità impagabili”, afferma.

Non sono solo i “nativi” a pensarla così. Tra i residenti più recenti c’è anche l’identificazione con la città. È il caso di Julia Moraes e Stefanny Souza, entrambe di 22 anni. Stefanny frequenta la facoltà di legge nel comune di Duque de Caxias e torna alla Cidade dos Meninos dopo le lezioni. Di recente ha lavorato sulla storia della comunità. 

Le ragazze dicono che la Cidade dos Meninos è un rifugio dal resto del mondo. “Sta lontano da tutti i problemi esterni. Hanno anche detto che ci avrebbero tirato fuori di qui, che ci avrebbero indennizzato. Ma so che non metteranno a disposizione così tanti soldi per far sì che tutti potranno andarsene da qui indennizzati. E quanto ci daranno? Con qualche decina di migliaia di reais non potremmo mai comprare qualcosa di buono come quello che abbiamo qui”, dice la studentessa di legge.

Miguel e la famiglia la pensano allo stesso modo. Colui che ha fatto la più grande denuncia di contaminazione da pesticidi del Brasile non può immaginare una vita lontana dalla Cidade dos Meninos. Seduto di nuovo su una panchina al baretto “Toca di Raul”, indica la sua casa. “Voglio morire lì. Voglio vivere qui fino alla morte. E dopo voglio che le mie ceneri siano sparse qui intorno. La polvere di piralide se ne andrá, la polvere di Miguel rimane».

Pedro Grigori, Agência Pública/Repórter Brasil, 02/08/2021

(Traduzione: Alessandro Vigilante)

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