Il Presidente turco ErdoganIl Presidente turco Erdogan

LA MEMORIA OTTOMANA NELLE SCELTE STRATEGICHE DELLA NUOVA TURCHIA: IL “SOFT POWER” COME ELEMENTO FONDAMENTALE DELLA POLITICA ESTERA DI ERDOGAN 

di Bruno Bevilacqua

 

Il concetto di National branding è un concetto estremamente instabile. Se è vero che la lingua, la letteratura, le attività sportive e gli eventi culturali possono contribuire alla costruzione di una “identità nazionale”, è altrettanto vero che tale identità è altamente volubile e gli equilibri politici sono uno dei fattori determinanti della definizione di un paese e del modo in cui questo viene “venduto” all’estero.

 

La trasformazione della classe politica (e non solo) turca dal 2002, anno della salita al governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), ad oggi ha sicuramente cambiato radicalmente l’immagine del paese ed il suo ruolo sullo scacchiere internazionale. Oggi, la politica estera del Presidente Erdogan è caratterizzata da un efficace sistema di “soft power” teso a valorizzare la religione, la cultura e la lingua del paese. Questa valorizzazione passa attraverso due grandi linee ideologiche: la volontà di erigersi a leader del mondo musulmano sunnita ed un ridimensionamento della storia repubblicana a favore della glorificazione del passato ottomano.

Prestando particolare attenzione ai rapporti internazionali cosiddetti “atipici” consistenti, appunto, da meccanismi di soft power e non nelle semplici relazioni diplomatiche che intercorrono tra i vari Stati, attori fondamentali della nuova politica estera turca sono il Direttorato degli Affari Religiosi (Dyanet) e l’Agenzia turca di Cooperazione e Coordinamento (TIKA).

Il primo risale alla nascita della Repubblica e nel corso degli anni ha mutato radicalmente il suo ruolo. Nata sotto l’impulso della laicità, questa Agenzia, di competenza del Primo Ministro, aveva l’obiettivo di sottoporre la dottrina religiosa e le istituzioni islamiche ad un controllo politico sulla base dei principi del Kemalismo. Quindi, dal 1924 in poi, anno della sua fondazione, la Dyanet si adoperò nel tradurre la letteratura religiosa dall’arabo al turco, e gli venne data competenza nel designare le grandi personalità dell’Islam, come gli imam, i muezzin, i predicatori e gli sceicchi.

Le competenze del Direttorato si sono viste crescere in un primo momento negli anni 80’ – anni della teorizzazione della sintesi turco-islamica – e poi, appunto, negli ultimi decenni. L’AKP ha quindi trasformato progressivamente la Dyanet nella voce spirituale della popolazione turca, congiuntamente al processo di degenerazione e egemonizzazione dello stesso partito e alla sua tendenza a promuovere la fuoriuscita della religione dalla sfera privata a quella pubblica e a reintrodurre nel paese il modello sociale di “buon cittadino islamico”. Per questo motivo, se nei primi due mandati dell’AKP la Diyanet non sembra essere stata soggetta a particolari pressioni politiche, il cambio di passo è avvenuto con la nomina a Presidente dell’Agenzia di Mehmet Görmez nel 2010, il quale prese il posto di un meno facilmente influenzabile Ali Bardakoğlu.

Il cambio di presidenza è, neanche troppo simbolicamente, il punto di partenza del processo che porterà alla completa subordinazione del Direttorato degli Affari Religiosi ai dettami politici del partito al governo. I dati ufficiali, inoltre, indicano che i fondi destinati alla Diyanet sono quadruplicati negli ultimi venti anni, e che il potere di questa sia cresciuto esponenzialmente grazie alla diffusione delle sue attività religiose nel mondo e all’assunzione di un numero sempre maggiore di dipendenti religiosi.

Il sostegno incondizionato della nuova Diyanet all’agenda politica di Erdogan si può evincere da prese di posizione nette su questioni di politica interna particolarmente sensibili all’opinione pubblica. Non è un segreto come la notte del fallito golpe del 2016 migliaia di imam ricevettero sul proprio cellulare l’indicazione di recitare la preghiera “Sala”, utilizzata storicamente nella società ottomana per segnare l’inizio di periodi difficili. Banalmente, il Direttorato degli Affari Religiosi si è dimostrato un alleato affidabile del governo anche nella gestione di eventi che esulano dallo specifico rapporto credente-rappresentanti religiosi, sfruttando le proprie competenze in ogni modo pur di adempiere all’agenda governativa. Infatti, sempre nel 2016, per fronteggiare la svalutazione della lira turca, quest’organo cambiò la valuta del pagamento della Hajj e della Umrah, le tasse pagate dai credenti per due diversi pellegrinaggi verso La Mecca, passando dal dollaro alla lira in questione. In linea di massima, il ruolo della Dyanet è stato quello di contribuire, tramite la propria autorità spirituale ed alle sue prerogative istituzionali, alla polarizzazione della società fomentando il vittimismo religioso figlio della “repressione laica e filo-occidentale”.

Come si diceva, con il passare degli anni quest’organo è diventato fondamentale per l’esportazione dell’ideologia panislamica di Erdogan il cui obiettivo è quello di rendere il paese “faro dell’islam sunnita nel mondo”. Non a caso, lo stesso Direttorato organizzò per la prima volta il “World Muslim Minorities Summit”, conferenza nella quale si trattò il tema dell’unità e della fratellanza religiosa. Particolarmente determinante è il ruolo svolto da una Fondazione del detto Direttorato, legata direttamente a quest’ultimo, il cui sito ufficiale mette in chiaro il suo scopo : “In quanto membri della civiltà islamica, l’ummah del profeta che raccomanda di tendere alla conoscenza dalla culla alla bara, noi creiamo ponti dei cuori tra paesi. Cresciamo giovani che abbiano ereditato la nostra antica civiltà con 31 progetti educativi in 15 paesi, riguardanti le preoccupazioni dell’ummah, i cui cuori sono pieni di amore per le persone, per le patrie, per l’ummah e per la religione”.

In Turchia, tale fondazione ha preso in carico la ristrutturazione di 152 moschee per danni legati ad atti di terrorismo. Il dato più significativo è però il massiccio investimento nella costruzione di moschee ed edifici religiosi all’estero, nell’ordine di decine di milioni di euro (circa 70 milioni).

Ad esempio, la Fondazione ha costruito 491 moschee nel nord della Siria, ma è particolarmente attiva anche in altri paesi islamici e anche dove i musulmani sunniti sono in minoranza.

Questa rete internazionale viene arricchita anche da altre attività che, congiuntamente o disgiuntamente, la Fondazione svolge all’estero. Il Qurbani program del 2022, prevede lo svolgimento di programmi di volontariato in 81 province in Turchia ed in 82 paesi differenti e consistono nel distribuire carne ai bisognosi nel periodo del “bairam” (sacrificio).

Inoltre, numerose missioni umanitarie vengono portate avanti in Birmania, Yemen, Sudan, Siria, Pakistan, Libano e Palestina. In quest’ultima, infatti, i dati ufficiali affermano che il progetto “Be hope for Palestine” ha portato a conclusione la costruzione di nove moschee (oltre alla riparazione di una), di sedici pozzi d’acqua, nonché la consegna di cinque tonnellate di forniture mediche, tre ambulanze e venti letti da ospedale. 

E’ rilevante anche il ruolo che la Fondazione svolge nel campo dell’istruzione nazionale.

Migliaia di borse di studio vengono elargite per permettere l’accesso a scuole secondarie e università principalmente per studi teologici (come le scuole İmam Hatip).

Non di minore interesse è, infine, il sostegno dottrinale che essa dà ai centri religiosi presenti nei paesi beneficiari.

Infatti, più di 2 milioni di Corani sono stati donati all’estero, mentre circa 1 milione e mezzo sono stati distribuiti per un totale di 36 traduzioni tra lingue e dialetti. Tale supporto dottrinale viene messo a compimento dalle prediche dei funzionari delle moschee il cui compito è anche quello di educare alla corretta interpretazione del Testo Sacro.

La presenza della Diyanet in paesi stranieri presenta delle criticità nel momento i cui le nomine dei dipendenti religiosi sono di carattere governativo, e devono quindi seguire le linee guida indicate dal governo centrale dell’AKP.

Per questo motivo i governi occidentali manifestano preoccupazioni rispetto alla presenza dei funzionari della Diyanet in centri religiosi più o meno importanti, che, verosimilmente, possono servire come strumento per diffondere un certo pensiero politico.

Tale attenzione dei governi nazionali è cresciuta in seguito al tentativo di golpe in Turchia del 2016 che ha dato il via ad un’ondata di arresti e persecuzioni nel paese ed anche ad un aumento delle attività di controllo dell’opposizione oltre i confini nazionali.

In particolare, interesse del governo turco è quello di intercettare i movimenti all’estero della comunità Gulen (movimento religioso, secondo il governo responsabile del golpe).

Un dibattito a riguardo ha preso luogo negli Stati Uniti, dove David L. Phillips, Direttore del Programma di Peace-building e Diritti alla Columbia University ha affermato: “Queste moschee non sono un posto di preghiera. Sono centri finalizzati alla mobilizzazione politica che agiscono come madrasse, distorcendo l’Islam e radicalizzando i giovani”.  Le preoccupazioni negli Stati Uniti sono cresciute con il grande investimento della Diyanet nella già esistente moschea e centro islamico presente nello Stato del Maryland, la quale oggi ha assunto il nome di Diyanet Center of America (DCA) (dove lo stesso Erdogan ha partecipato alla cerimonia di apertura nel 2016).

Anche in Germania si è discusso se fosse opportuna la presenza della “Diyanet İşleri Türk İslam Birliği”.

Lo Stato federato tedesco dell’Assia ha infatti deciso di interrompere la cooperazione con questa “filiale” della Diyanet, mentre la sua attività è stata apertamente condannata del Ministro della Cultura Alexander Sulz. 

Il comportamento di questi centri è stato quindi anche oggetto di diverbi diplomatici con paesi europei. L’Olanda nel 2016 richiamò l’ambasciatore turco a causa del sospetto che la Diyanet stesse raccogliendo informazioni sui membri della Comunità Gulen, mentre in Belgio nel 2017 venne rifiutata la domanda di visto a dodici imam turchi.

Si può affermare quindi che più che le attività di diffusione della dottrina islamico-nazionalista di Erdogan, ciò che preoccupa i paesi europei è l’attività di spionaggio che le varie diramazioni del Direttorato degli Affari Religiosi sono sospettate di svolgere, alla stregua di Servizi Segreti.

Un lavoro molto simile a quello della Diyanet viene svolto dalla Turkish Cooperation and Coordination Agency (TIKA), dipartimento dipendente dal Primo Ministro.

L’articolo 1 della legge istitutiva del 1992 definisce il ruolo ed il raggio di azione dell’organo: “In primo luogo, a quelle repubbliche le cui popolazioni parlano la lingua turca, i paesi vicini alla Turchia, così come i paesi in via di sviluppo, e altri popoli, deve essere offerto il supporto dalla “TIKA” e una cooperazione economica, di mercato, tecnica, sociale, culturale e educativa sarà rafforzata tramite progetti e programmi della “TIKA”, che opera sotto il Primo Ministro con una propria personalità giuridica”.

Se il compito del Direttorato degli Affari Religiosi è quello di rafforzare la propria influenza nei centri islamici sunniti oltre i confini nazionali, la TIKA nasce per rinsaldare un legame con quelle popolazioni con cui la Turchia condivide parte della propria storia, geografia, cultura e lingua.

Non a caso è stata istituita dopo il crollo dell’Unione Sovietica, con l’allontanamento dalla Russia delle cinque Repubbliche centro-asiatiche.

Alla fine della Guerra Fredda, Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Tajikistan e Uzbekistan rientrarono subito negli obiettivi diplomatici della Turchia la quale, non potendo competere con la potenza statunitense e quella russa, decise di procedere rafforzandone il fattore culturale.

La presenza in questi territori ha raccolto i suoi frutti. Difatti, oggi la Turchia gode di una forte collaborazione economica e militare con i cinque paesi -stan, nei quali mantiene dei forti interessi in numerosi settori strategici, come quello energetico, ed ha inoltre accresciuto il proprio prestigio nella regione con l’aiuto fornito durante la pandemia. 

Le attività della TIKA si sono ben presto espanse da un punto di vista geografico. Anche in questo caso, così com’è accaduto con il Direttorato degli Affari Religiosi, il budget destinato a quest’organo si è visto aumentare in maniera sostanziare (quintuplicare) con l’arrivo al potere dell’AKP.

Di conseguenza, la TIKA oggi svolge un ruolo importante in diverse parti del mondo. Tra il 2014 ed il 2019 ha dato vita a più di cinquanta moschee oltre i propri confini nazionali, contribuendo anche alla preservazione del patrimonio storico e culturale dell’Impero ottomano. Oltre questo, ha promosso circa trenta mila progetti di carattere differente (umanitario, culturale, religioso, educativo) dall’anno in cui è stata creata, il 1992, al 2020.

Dal 2005, coerentemente con la strategia di politica estera di Erdogan, la TIKA ha cominciato ad operare in Africa, in particolar modo nei paesi sub-sahariani, aprendo uffici in ventidue paesi del continente.

Negli ultimi anni, la presenza dell’Agenzia è cresciuta specialmente nei Balcani, aprendo sedi operative in tutte le capitali dei paesi della regione. Da un punto di vista culturale e educativo queste contribuiscono a sviluppare programmi di studio, in accordo con le Università, di lingua turca e di dialetti ad essi connessi. Tali progetti sono stati portati avanti in Albania, Kosovo e Bosnia Erzegovina. In particolare, in Bosnia il ruolo di questa agenzia sembra essere particolarmente determinante, in quanto il paese ricopre la posizione di terzo maggior beneficiario al mondo dei suoi interventi. L’ex capo della TIKA in Bosnia Erzegovina, Zukuf Oruc ha riaffermato il significato di tale presenza: “la missione è quella di creare un futuro attraverso la ricostruzione della storia e del passato”

Anche la popolazione Tatara in Ucraina è stata destinataria in questi anni degli interventi TIKA. Ultimamente, durante la crisi ucraina, l’Agenzia ha consegnato cibo a 500 famiglie tatare originarie della Crimea colpite dalla guerra.

Un altro rapporto degno di nota è quello instaurato con la Palestina, la quale ha apertamente ringraziato le attività della TIKA, che si sono distinte in ambito umanitario, in quello dell’istruzione ed hanno fornito un aiuto anche nel rilancio dell’economia del paese.

Queste attività di sostegno al popolo palestinese, specialmente per la loro presenza in Cisgiordania, nella Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza, hanno contribuito ad inasprire i rapporti diplomatici tra Turchia e Israele. Infatti, più volte la classe dirigente israeliana ha puntato il dito contro l’Agenzia accusandola di aiutare i gruppi nazionalisti e religiosi palestinesi, a tal punto da prevedere delle restrizioni per lo svolgimento di tali attività su questi territori.

Da un lato, quindi, le attività della TIKA possono servire per intessere e migliorare i rapporti con paesi turcofoni (come i paesi dell’Asia Centrale e l’Azerbaijan) e non solo (oltre alla Palestina, si pensi ai più lontani paesi dell’Africa sub-sahariana). In altri casi, invece, tali attività sono tese a far leva su minoranze all’interno della popolazione, e quindi ad arrivare ad aumentare la propria influenza sul paese in maniera indiretta, com’è il caso dei tatari di Crimea.

Dire che la politica estera di Erdogan sia tesa ad una riunificazione culturale frutto di un’ideologia pan-turca, pan-islamica e neo-ottomana è quindi senza dubbio riduttivo.

E’ altresì vero che la componente storica e quella religiosa giocano un ruolo più che significativo nell’ambizione politica di prestigio internazionale della Turchia degli ultimi vent’anni.

Quanto detto, può essere riassunto in un discorso che il capo dell’AKP ha tenuto in più di un’occasione davanti ai propri cittadini.

“Ci domandano perché ci interessiamo all’Iraq, alla Siria, all’Ucraina, alla Georgia e alla Crimea, all’Azerbaijan e al Nagorno Karabak, ai Balcani e all’Africa del Nord. Ma questi paesi non ci sono stranieri. Come fare la differenza tra Rize e Batoumi? Come evocare Edirne senza parlare di Salonicco e Kardjali? Come non ammettere che Gaziantep, Aleppo, Mardin, Syrte e Moussoul sono legati? Da Hatay al Marocco, troverete le tracce dei nostri antenati”, e poi “Per noi, non si tratta di altri mondi, ma di pezzi della nostra anima”.

 

Bruno Bevilacqua

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