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IRAN E MEDIO ORIENTE, INTRECCI REGIONALI E GRANDI POTENZE

di Alberto Bradanini 

 

La doverosa attenzione alla nozione di complessità consiglia cautela quando si tenta un’analisi della scena mediorientale, dove sedimentazioni storiche e interessi delle Grandi Potenze (ex o attuali) si mescolano con sovrastrutture religiose, arretratezza culturale, assenza di prospettive di vita e lavoro per popolazioni giovani e frustrate, cui si aggiunge un acuto, e non senza ragione, risentimento contro l’Occidente, quello del passato coloniale e del presente neocoloniale.

 

Davanti alla Grande Menzogna (globalista, militarizzata e americano-centrica) che anche in Medio Oriente controlla la narrazione degli eventi far emergere qualche aspetto di plausibile riflessione non è impresa facile. Ci si limiterà qui a qualche misurata ponderazione, con un cauto sguardo sull’orizzonte.

 

Come altrove, anche in Medio Oriente i fattori identitari sono costituiti da lingua, etnia, colore della pelle, religione (o anche famiglie religiose), tutti intrecciati tra loro e su cui soffiano i detentori di privilegi e le Grandi Potenze, in primis gli Stati Uniti, per estrarre benefici politici e ricchezze materiali.

 

A seconda di tempi e luoghi, alcuni fattori prevalgono su altri. La religione – per sua natura messaggera di orizzonti messianici – occupa un posto centrale, vittima e insieme protagonista di fanatismi, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, su cui prosperano gerarchie ecclesiastiche e oligarchie di ogni risma. È invece storicamente deficitaria un’agenda di rivendicazioni sociali alla luce dell’emarginazione politica e culturale nella quale sono relegate le classi subalterne. Il cammino verso l’uscita dal sottosviluppo, oltre che da scarsa consapevolezza, è ostacolato dalla perenne instabilità politica, deliberatamente alimentata dalle istanze dominanti per impedire l’emergere di priorità centrate sullo sviluppo umano e la giustizia sociale. Invece di aggredire la polarizzazione dei redditi, la precarietà, l’assenza di lavoro e le misere prospettive di vita, gli strati sociali emarginati vengono sedotti dall’ideologia dell’appartenenza etnica o religiosa, divenendo vittime di fanatismo, sfruttamento e miraggi migratori. La regione è così divenuta teatro di predazione delle corporazioni occidentali sostenute dai rispettivi eserciti, spesso in complicità con le oligarchie locali.

 

Anche il terrorismo, filiazione di tale intelaiatura, affonda le radici nel lago delle frustrazioni politiche, delle ingiustizie sociali e delle interferenze (neo-)coloniali delle potenze occidentali attratte dalle ricchezze della regione. Il terrorismo è un fenomeno politico e sociale. Combatterlo al meglio, come pure occorre fare, senza affrontare tali aspetti, non sarà sufficiente.

 

Oggi, nella regione della turbolenza che va dal Caspio al Mediterraneo fino al Nord-Africa, la collocazione degli schieramenti sfida la logica aristotelica. Vediamo. Israele è contro i palestinesi, in verità più contro Hamas che contro l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). ANP e Hamas si fronteggiano a Gaza, ma sono unite (con modalità diverse) contro lo Stato Ebraico. L’Egitto appoggia l’ANP, ma non Hamas, e ha relazioni politiche con Israele. Hamas e Iraq hanno lo stesso nemico, Israele, ma non hanno buone relazioni tra di loro. La Turchia sostiene Hamas, ma ha rapporti distesi con Israele (il tragico episodio della Mavi Marmara del 2010 è archiviato).

 

Hezbollah ha pessime relazioni con i paesi sunniti ed è alleata di Iran e Siria. Damasco è in sintonia con Bagdad e ha relazioni distese con l’ANP. L’Iraq è ostile all’Arabia Saudita (AS), ma è vicino all’Egitto, che ha invece buoni rapporti con Riad. Al-Sisi, in linea con i suoi predecessori, ha qualche problema con l’Iran, diffida di al-Assad, ma diffida ancor più di Ankara (che in Libia, infatti, è schiarata sul fronte opposto). L’AS è (o meglio era) ai ferri corti con Siria, Iraq e Hezbollah, ha ora rapporti distesi con Israele – per la verità un po’ meno dopo la recente distensione Riad-Teheran – ma è sospettosa della Turchia. L’AS finanzia Hamas, ma è nemica dei Fratelli Mussulmani, i quali, pur coltivando agende nazionali diverse, tornano compatti a favore di Hamas e contro Israele. Quest’ultimo è nemico di Hezbollah, Siria e beninteso Iran, il quale finanzia Hamas, a sua volta sostenuto soprattutto dalle monarchie sunnite e freddo nei riguardi di al-Assad.

 

Dunque, l’evento politico di maggior rilievo recentemente occorso è stata la ripresa delle relazioni tra Riad e Teheran con la mediazione cinese. Una positiva evoluzione che costituisce plastica evidenza che la scena internazionale è ormai divenuta plurale/multipolare, a detrimento di quell’unipolarismo americano che era sorto nel 1991 dalle ceneri dell’Unione Sovietica. L’irrompere della Cina quale potenza mediatrice – che abbiamo visto prendere corpo anche sulla crisi ucraina, sebbene invano per ora – conferma che la Repubblica Popolare è oggi una nazione di pace, espressione di scelte politiche, ideologiche e insieme di diretto interesse (le guerre sono un ostacolo al commercio, strumento fondamentale questo per alimentare la crescita economica cinese).

 

La riappacificazione tra i due principali paesi del Golfo Persico ha già prodotto frutti concreti: a) nello Yemen, un primo scambio di 850 prigionieri tra le truppe governative sostenute da sauditi e americani e dall’altra i ribelli houthi, sciiti zaiditi, sostenuti da Teheran. È verosimile che nei prossimi mesi le tensioni su questo teatro vadano gradualmente riducendosi; b) visita a Riad del presidente siriano, Bashar al-Assad, grande alleato di Teheran (d’intesa con Mosca va detto), che segna il primo ritorno della Siria sulla scena internazionale, quale segnale di nuovi schieramenti regionali, fuori dal controllo Usa; c) al netto di future interferenze di questi ultimi, non dovrebbero mancare ripercussioni positive anche in Siria dove, dal 2011, turchi, americani e quel che resta dell’Isis continuano a saccheggiare una popolazione spossata da guerre e divisioni, mentre la tragedia dei curdi non trova spazio per una prospettiva ragionata. La cosiddetta opposizione moderata siriana – che insieme ai resti dell’esercito sconfitto di Saddam, ad al-Qaeda e ad altri tagliagole invasati, era poi confluita nel cosiddetto Stato Islamico-Isis – ha goduto sin dal 2011 del sostegno finanziario e militare degli Stati Uniti, dei paesi del Golfo e dell’AS (ora non più, forse), con l’obiettivo primario di spodestare Bashar al-Assad, grande nemico di Israele.

 

A sua volta, Teheran ha relazioni neutrali con al-Sisi (nemico di Hezbollah) e rapporti meno distesi con le monarchie del Golfo (ad eccezione del Qatar), ma buone relazioni con la Turchia nemica di al-Assad, che l’Iran però sostiene. Turchia e Iran hanno poi ottimi rapporti tra loro, sia in funzione anti-curda (per entrambi un nemico esiziale) che per ragioni economico-energetiche (Ankara importa gas iraniano).

 

I curdi iracheni godono di un elevato livello di autonomia (grazie all’esercito dei Peshmerga) e hanno rapporti distesi con Ankara, sebbene quest’ultima diffidi di tutti i curdi, ovunque, perché compagni di viaggio persino del PKK, il Partito Curdo dei Lavoratori, che si batte da decenni contro il nazionalismo turco monoetnico in conflitto con la storia e incapace di riconoscere agibilità politica al 25% o più dei propri cittadini di etnia curda. In Iraq, i curdi iracheni, prevalentemente sunniti, sono ostili agli arabi iracheni-sunniti per ragioni etniche, mentre per ragioni etniche e insieme religiose sono ostili agli iracheni sciiti. Sempre in Iraq, l’appartenenza etnica prevale su quella religiosa. Almeno per il momento, invece, in Iran è l’appartenenza religiosa, insieme alla repressione, a prevalere su quella etnica (il 90% della popolazione iraniana è sciita, ma solo il 50% è di etnia persiana), sebbene per ora i curdi iraniani, divisi tra sunniti e sciiti, siano silenti (ma non rassegnati).

 

Tutti, sulla carta, sono nemici dell’Isis. L’AS, le monarchie del Golfo e gli americani però, per ragioni diverse, hanno puntato alla caduta di al-Assad e al ridimensionamento del ruolo di Iran e Hezbollah, tutti obiettivi mancati. Oggi poi, come detto, la scena è cambiata: il recente smarcamento dell’Arabia Saudita, insieme al ruolo che l’Iran riuscirà a giocare in questo passaggio storico, saranno centrali per comprendere gli sviluppi futuri.

 

Sul piano religioso, i sunniti, avversi agli sciiti (iraniani/duodecimani, alawiti, aleviti, ismaeliti, houthi o altro), restano a loro volta divisi tra loro: wahabiti contro salafiti, al-Qaeda contro governi sunniti; fratelli mussulmani contro altri fratelli e contro i wahabiti-sauditi; emiri, principi o sovrani di sorta tornano però alleati contro chiunque attenti ai loro privilegi di classe.

 

Sulla carta, gli Stati Uniti sono nemici di Isis e al-Qaeda (come detto tuttavia, a seconda di contingenze e convenienze), ma sono soprattutto nemici di Hamas ed Hezbollah, entrambi avversari di Israele. Hezbollah è un gruppo terrorista per gli Stati Uniti, i quali tuttavia (come gli europei) distinguono il braccio militare da quello politico e mantengono un Ambasciatore accreditato in Libano, dove il Partito di Dio è al governo con Sunniti, Drusi e Cristiani. Hezbollah non è però considerato un gruppo terrorista dalla Turchia, sebbene combatta a fianco di al-Assad, nemico di Ankara.

 

Gli Stati Uniti, inoltre, nemici di Iran e al-Assad, sostengono al-Sisi e sono alleati dell’Iraq, che è vicino a Siria, Iran e Hezbollah, tutti nemici degli Stati Uniti. Questi ultimi sono anche i principali sponsor politici e militari di Israele, ma finanziano l’ANP e sono alleati dell’AS, diventata ora un alleato pragmatico dello Stato Ebraico e occulta finanziatrice di talebani, Al-Qaeda e Isis, che sempre sulla carta sarebbero nemici degli Stati Uniti.

 

In tempi recenti, Russia e Turchia hanno ritrovato una buona intesa politica ed energetica (il gasdotto Turkish Stream collega la città russa di Russkaya a Luleburgaz a nord di Istanbul). Mosca coltiva finanche il sogno di una crepa nelle relazioni tra Nato-Stati Uniti e Turchia, che manifesta un crescente malessere verso Washington, sospettata persino di aver orchestrato il fallito golpe del 2016 contro Erdogan.

 

Senza aggiungere altre ramificazioni di alleanze/ostilità di Libia, Libano, Afghanistan, Giordania e paesi minori del Golfo, è di tutta evidenza che siamo di fronte a un vero e proprio rompicapo. Che fare dunque?

 

Un primo sussulto figlio di buon senso, etica politica e di quel poco di diritto internazionale che la comunità delle nazioni è riuscita a costruire al termine del secondo conflitto mondiale (e che gli Stati Uniti, considerandolo un ostacolo alla loro bulimia di potere, stanno cercando di smantellare) imporrebbe alle potenze esterne di lasciare la regione. In tal caso, è infatti verosimile che, una volta eliminate le interferenze neocoloniali di grandi potenze e corporazioni, la regione si avvierebbe gradualmenteverso un suo naturale riequilibrio. A quel momento, la comunità internazionale, da intendersi non solo come il cosiddetto Occidente, potrebbe contribuire alla costruzione in quei paesi di istituzioni che pongano al centro la persona umana e l’equità sociale nella legittima diversità di tutti i popoli dell’area. Non è tutto, ma sarebbe molto. È ben evidente che con tale arditezza prospettica siamo entrati nel mondo dei sogni, ma questo, come noto, è spesso preferibile alla realtà.

 

Oggi, per concludere, non è più l’Europa o l’Occidente a far avanzare la storia. Da decenni gli Stati Uniti, il suo paese-guida, hanno scelto di imporsi con la forza senza disporre di egemonia, per promuovere i loro interessi, utilizzando strumenti e linguaggi che non riescono più a sedurre nemmeno le menti dei popoli sprovveduti, nonostante l’asfissiante manipolazione mediatica. L’uomo si conferma dunque creatore del proprio destino, smentendo la velenosa assiologia del Tina (there is no alternative), poiché l’alternativa esiste, ed è quella sempiterna di un mondo più giusto, più libero e più umano.

 

Fonte: lafionda.org

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