NOVE ANNI FA TORNANO A CUBA I “CINQUE”
Ricordo benissimo quel giorno, il 17 dicembre 2014,, ero a Cuba in quel periodo dell’anno ed ho potuto vivere quella incredibile ed inaspettata giornata a contatto con i cubani. Come ogni mattina, verso le 10 accendo il televisore su Telesur per ascoltare le ultime notizie.
Telesur e apprendo dalla conduttrice del notiziario, con mio grande stupore, che quella mattina il governo cubano aveva concesso la libertà al cittadino statunitense Alan Gros,arrestato e condannato per spionaggio per aver introdotto nel paese sistemi di comunicazione proibiti.
Successivamente apprendo che la stessa mattina il governo degli Stati uniti aveva concesso la libertà ai tre agenti cubani ancora detenuti nelle carceri americane. Non riuscivo bene a capire cosa stesse succedendo. Alan Gros è sempre stato un personaggio marginale, era entrato a Cuba come membro di una O.N.G.e fin dal suo arresto il governo statunitense non si era preoccupato troppo della sua liberazione.
Non capivo perché questo strano scambio, visto che sui cinque agenti cubani il governo statunitense aveva investito molte energie e aveva fatto di tutto perché la condanna fosse stata esemplare.
Mentre gli Stati Uniti cercavano con ogni mezzo di abbattere la rivoluzione, il governo cubano attuava misure di controspionaggio per prevenire e minimizzare gli effetti dell’ingerenza statunitense nella propria vita politica. L’infiltrazione di agenti sotto copertura nei gruppi controrivoluzionari di Miami è stato da sempre il modo preferito dai servizi segreti cubani per smascherare i molti complotti organizzati dalla Cia.
Un gruppo di uomini disarmati provenienti da Cuba arrivarono negli Stati Uniti per monitorare le attività dei mercenari, responsabili degli attacchi, e controllare le organizzazioni che li sostenevano, per avvertire Cuba delle loro intenzioni aggressive.
Il 12 settembre del 1998, cinque di questi uomini, noti successivamente come I Cinque Cubani: Antonio Guerrero nato a Miami, Fernando González nato a L’Avana, Gerardo Hernández nato a L’Avana, Ramón Labañino nato a L’Avana, René González nato a Chicago, furono arrestati nel Sud della Florida dagli agenti dell’FBI e tenuti in celle d’isolamento dette hueco, buco, in spagnolo, per le loro dimensioni di due metri per uno senza finestre, per 17 mesi prima che il loro caso venisse portato davanti ad un tribunale.
All’inizio vennero accusati di cospirazione al fine di spionaggio. La procura non li ha mai accusati di tale reato, né ha mai affermato che vi fosse stato spionaggio reale, giacché non fu loro mai sequestrato alcun documento militare riservato. I Cinque hanno dovuto rispondere anche di accuse minori: utilizzo di nomi falsi e di non aver informato le autorità federali di lavorare in territorio nordamericano per conto di Cuba. Alla fine del lunghissimo e travagliato del processo che era diventato più che per spionaggio un caso politico i cinque vennero condannati a pene variabili.
Mentre cerco di capire cosa sta succedendo continuo a seguire il notiziario rammaricandomi di aver acceso la televisione a telegiornale già iniziato. L’inviata da Washington avvisa che fra pochi minuti si sarebbe tenuto il discorso ufficiale del Presidente Barak Obama che avrebbe annunciato il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi e che alle 12 da L’Avana il Presidente Raul Castro Ruz avrebbe fatto lo stesso. Ecco finalmente tutto diviene più chiaro: Cuba e gli Stati Uniti avrebbero iniziato a parlarsi, anche se in tutti questi anni chi non ha voluto instaurare un dialogo sono stati gli Stati Uniti e non certamente Cuba. Nonostante tutti i tentativi di distruzione e di affossamento della rivoluzione, il governo cubano ha da molti anni cercato un dialogo ma ha sempre trovato tutte le porte chiuse.
La notizia arriva come un lampo a ciel sereno: nessuno si aspettava un annuncio come questo, ciò mi coglie di sorpresa come coglie di sorpresa milioni di persone che dai vari mezzi di informazione apprendono, in giro per il mondo, la inaspettata notizia. I primi contatti tra le diplomazie dei due governi erano iniziati mesi prima, in gran segreto, con la mediazione del governo canadese e del Vaticano. Ascolto con un po’ di emozione e una comprensibile curiosità il discorso di Barak Obama e poi quello di Raul Castro che annuncia, tra l’altro, la liberazione di Ramon Labanino, Salazar, Rene Gonzales Sehwerert e Antonio Guerrero Rodriguez ed il loro arrivo sul suolo cubano il giorno successivo.
Obama nel suo discorso non tralascia di menzionare il blocco economico, commerciale e finanziario che il governo che lui rappresenta applica all’isola. Lo definisce obsoleto e che non ha portato nel corso degli anni a risultati apprezzabili; aggiunge poi che la strategia verso l’isola non cambia e che in Cuba è necessario un cambiamento. Termina il suo discorso con il consueto cavallo di battaglia della violazione dei diritti umani: anche l’isola caraibica ne sarebbe una sistematica violatrice.
Le parole pronunciate da Barak Obama di fronte al mondo avevano suscitato in una certa parte della società cubana, quella meno attenta alle vicende di politica internazionale, un certo comprensibile ottimismo. Si era diffusa la opinione che quelle parole sarebbero state il preludio a una nuova stagione delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. Nei giorni successivi nei telegiornali e nelle trasmissioni televisive di approfondimento politico, alcuni osservatori si sbilanciavano addirittura a dipingere ipotetici scenari futuri risultanti da un alleggerimento o magari una cancellazione totale del blocco.
Personalmente, assieme alla parte della popolazione cubana più realista e informata politicamente, non ho mai creduto che quella apparente apertura avrebbe portato ad un cambiamento di 180 gradi, anche se auspicabile, delle politiche che per quasi sessanta anni i governi Nord Americani si erano ingegnati di inventare per distruggere la rivoluzione cubana. Mi dicevano che ero una persona pessimista e che invece bisognava avere un poco di fiducia e che le cose così sarebbero andate meglio: inguaribile ottimismo cubano.
Perché poi avrei dovuto avere fiducia verso una persona che, nonostante dopo la sua elezione fosse stata considerata riformista e lontana dalle politiche del suo predecessore, negli anni della sua presidenza non si era comportato come ci saremmo aspettati. Era lui che aveva bombardato la Libia ed assassinato Gheddafi, aveva appoggiato la destra violenta che lo stesso anno in Venezuela cercava di abbattere il governo di Nicolas Maduro con atti feroci uccidendo decine di persone, in nome di una supposta sollevazione popolare, che invece la maggioranza dei venezuelani rifiutava, aveva contribuito alla organizzazione ed alla messa in atto della caduta del presidente ucraino e della conseguente guerra ai confini con la Russia, stava bombardando la Siria per combattere il terrorista Stato Islamico che in precedenza era stato finanziato ed armato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei e del Medio Oriente. Per non parlare poi delle guerre in Afghanistan e Iraq lasciate in eredità da George W. Bush al nuovo inquilino della Casa Bianca che, in campagna elettorale, aveva più volte affermato voler concludere rapidamente se eletto; erano trascorsi sei anni dalla sua elezione, ma nei due paesi si combatteva ancora e la pace era lontana. Ma aveva ricevuto per le sue gesta pacifiste il Premio Nobel.
Altra promessa fatta in campagna elettorale e non mantenuta, come è divenuto abituale per i nostri politici, riguarda proprio Cuba. Aveva più volte ripetuto nei comizi che, se eletto, avrebbe chiuso il carcere di Guantanamo. Molti avevano visto in quella affermazione la volontà di chiudere la base che, a tutt’oggi, gli Stati Uniti occupano illegalmente. Peccato che chiudere il carcere, anch’esso privo di legittimità giuridica, non significava abbandonare il territorio cubano e restituirlo ai cubani.
Mi trovavo nel mezzo di un avvenimento di carattere mondiale ma non mi procurava quella eccitazione che invece percepivo nei discorsi che affollavano le televisioni, forse perché io degli Stati Uniti non mi sono mai fidato. Perché, allora, mi dovevo fidare proprio in quella occasione?
Nelle parole espresse in quel discorso ci leggevo la solita retorica mista a ipocrisia che serve a nascondere, nei discorsi ufficiali, il vero obiettivo.
Merita a questo punto porre attenzione all’aspetto puramente politico e pratico che quel giorno il presidente Obama ha voluto comunicare al mondo. Il blocco economico finanziario e commerciale viene definito obsoleto e non portatore dei risultati voluti. Con il blocco gli Usa avevano cercato di isolare Cuba impedendo a qualsiasi altra nazione di commerciare con l’isola con l’intento di affamare la popolazione e portarla alla rivolta contro il governo. Ma nel tempo, l’unico risultato ottenuto è stato quello di compattare la popolazione attorno alla rivoluzione e creare nell’opinione pubblica mondiale un sempre maggior movimento di solidarietà con l’isola.
Bisogna quindi sviluppare un’altra strategia che porti alla costruzione di una Nuova Cuba, non più socialista ed allineata alle politiche statunitensi. Questa in sintesi l’idea che da sempre hanno e continuano ad avere dell’isola. In nessun momento è stato messo in discussione il blocco nonostante aver riconosciuta la sua inefficacia. Il cambio di strategia significa quindi usare altri sistemi che possano condurre al tanto invocato cambiamento magari con una rivoluzione colorata tanto di moda in quegli anni.
Parallelamente alla volontà di ristabilire normali relazioni diplomatiche, ad esempio, vengono aumentati i finanziamenti alle organizzazioni non governative operanti sul territorio cubano, che molto spesso vengono usate quali canali di finanziamento illegale a gruppi contro rivoluzionari. Misura approvata dall’Amministrazione Obama solo pochi giorni dopo il fatidico discorso.
Rraul Castro Ruz nel suo discorso afferma con inequivocabile chiarezza che non ci potrà mai essere un completo ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi finché gli Stati Uniti non rispetteranno le scelte politiche fatte dall’isola più di cinquanta anni fa. Dichiara inoltre che tra i punti inderogabili perché le relazioni possano essere normalizzate definitivamente occorre la restituzione del territorio occupato dagli Stati Uniti a Guantanamo, dove ancora persiste l’illegale base militare, la cessazione delle trasmissioni radiotelevisive illegali provenienti dal territorio statunitense, la cancellazione totale del blocco, l’indennizzo economico per i danni derivanti dallo stesso.
In queste parole si legge la fermezza e la incondizionata volontà di continuare l’esperienza rivoluzionaria senza accettare nulla che metta in discussione quei principi che sono stati difesi con le unghie e con i denti per sei decadi. Frequentemente, in quei giorni, le persone mi dicevano che non sarebbe stato certamente Obama a dire come il popolo cubano avrebbe dovuto vivere, a scegliere la forma di governo e che la rivoluzione non era negoziabile, che pensasse alla democrazia del suo paese che a quella di Cuba ci avrebbero pensato da soli. Infine che, anche se un poco ingenuamente, se voleva veramente bene a Cuba come diceva, invece di fare tanti discorsi, avrebbe fatto meglio a togliere il blocco.
Andrea Puccio Tratto dal mio libro “Cuba: un paese sotto attacco”