IL VOLTO NASCOSTO DELLA GUERRA IN COLOMBIA: IL TRATTATO DI LIBERO COMMERCIO.
Colombia: questa sconosciuta. Sconosciuta anche perché ciò che accade nel paese sud americano sembra non essere una notizia per i nostri sempre poco attenti mezzi di informazione.
Non interessano i quotidiani omicidi dei leader sociali, degli ex appartenenti alle FARC, le numerose stragi di civili e neppure le manifestazioni contro il governo Duque. Ma perché? La Colombia è il più fedele alleato degli Stati Uniti nella regione e sul suo territorio ospita sette basi militari. Dall’altra parte dell’oceano l’Unione Europea ha stipulato un trattato commerciale mettendo al primo punto dell’accordo il rispetto di diritti umani ma dopo vari anni di immobilismo del governo colombiano il primo articolo del trattato pare essere definitivamente morto.
In un interessante ed approfondito articolo che sotto riportiamo Anna Camposampiero illustra la genesi di questo trattato commerciale che resiste a tutte le violazioni dei diritti umani da parte del governo colombiano.
Essere nascosta dalla cronaca pare essere il destino della Colombia da sempre. Un paese che viene semplificato citando da un lato Gabo[1], e tutta la narrazione latinoamericana che ruota attorno ai cento anni di solitudine a cui questa terra irrigata dal sangue pare essere destinata, e dall’altra la cocaina, Escobar e l’altrettanta narrazione, direi tossica per un usare un termine adeguato.
La Colombia è ovviamente molto di più, ma non è il mio paese di origine e la sua complessità meriterebbe un’attenta disamina.
Così ho pensato fosse più utile provare a cercare di capire perché la Colombia è fuori dal radar della comunicazione, anche giornalistica, nonostante tutto ciò che sta accadendo, nonostante la quantità di video che circolano, di denunce, di note, di urla di dolore. E cosa potremmo fare.
E vorrei provare a farlo guardando gli interessi dell’Unione Europea rispetto a questo paese che rappresenta una quota di mercato enorme nel continente latinoamericano. Un paese caratterizzato da una economia che viaggia su due binari paralleli, con una divaricazione enorme tra la tecnologia di alto livello a cui riesce ad accedere, e le zone rurali in cui pare che nulla sia cambiato dai tempi di Macondo e delle multinazionali delle banane.
Nell’agosto del 2020 l’accordo di libero commercio firmato tra la Unione Europea Colombia e Perù (l’Ecuador si è unito successivamente nel 2017) ha compiuto 7 anni da quella che viene definita “applicazione provvisoria”. I negoziati sono iniziati nel lontano 2006, fino ad arrivare alla firma nel 2012, non senza controversie, sia commerciali sia sul tema del rispetto dei diritti umani e ambientali.
Proprio la difficoltà di far rispettare i diritti umani e ambientali aveva portato il Parlamento europeo ha proporre una “hoja de ruta”, un piano d’azione, che avrebbe dovuto obbligare gli Stati firmatari a modificare i propri comportamenti e a garantire sanzioni in caso di violazioni. Aver accettato di introdurre questo piano d’azione è stato fondamentale per la ratifica del Trattato con la Unione Europea.
E quindi?
Al momento della firma la Commissione Europea parlava di un accordo che avrebbe aumentato la prosperità dei paesi firmatari, “consolidandone la crescita e migliorando le condizioni di vita delle persone”. Tante belle parole, come “promuovere lo sviluppo economico, ridurre la povertà, creare nuovi posti di lavoro, migliorare le condizioni di lavoro e di standard di vita”. E, come ciliegina, il trattato contiene “disposizioni esaustive e vincolanti (…) che garantiscano i diritti umani”.
Proviamo a fare un bilancio, non tanto commerciale che in ogni caso avrebbe senso fare, ma che non si discosterebbe molto dai danni che generano questo tipo di accordi contro i quali esiste una ampia e storica mobilitazione, sia della società civile che di alcune forze politiche di sinistra in ambo i continenti, a favore di una politica commerciale più equa e più sostenibile sotto tutti i punti di vista, e per un concetto di “sviluppo” differente.
Va detto che l’accordo inizialmente doveva essere siglato con la Comunità andina, e che era definito “Accordo di Associazione”, per provare a distinguerlo dai “classici” TLC, i Trattati di Libero Commercio, e che si basava su tre pilastri: dialogo politico, cooperazione per lo sviluppo e libero commercio. L’uscita del Venezuela dai negoziati nel 2006 e della Bolivia (il Venezuela lungimirante di Chavez e la Bolivia di Morales, giusto per ricordarlo), e la temporanea uscita dell’Ecuador rientrato poi nel 2017, hanno portato Colombia e Perù a chiedere alla Commissione Europea di continuare i negoziati in forma trilaterale. Così anche tutto il racconto dedicato al favorire l’integrazione regionale ce la siamo perso per strada…
Per farla breve, nel 2009 cambia tipologia, diventando un semplice accordo commerciale, eliminando i pilastri del dialogo politico e della cooperazione per lo sviluppo. Così, di fatto, ci si è dimenticati anche tutta l’ipocrisia legata al miglioramento delle condizioni di vita delle persone…
Nel marzo del 2011 Colombia e Perù firmano l’Accordo Commerciale. A cui seguono i processi di ratificazione, con la particolarità che in attesa che i processi di ratificazione degli Stati Membri della Unione Europea si completino, può essere applicato un accordo misto in via provvisoria. Quindi dall’agosto del 2013 è in vigore con la Colombia in questo modo.
Nel 2012 è stata presentata al Parlamento Europeo la risoluzione 2628 con cui si esortava la Colombia, tra le altre cose, “a farsi carico dell’elaborazione di un piano d’azione trasparente e vincolante sui diritti umani, ambientali e del lavoro”, includendo la “adozione di misure per farla finita con l’impunità e quindi avviare processi penali e pene certe per le “persone con maggior responsabilità sia intellettuale che materiale per i delitti commessi in Colombia”. Ma tutti i documenti presentati non includevano calendari vincolanti sui temi per i quali il Parlamento europeo chiedeva miglioramenti. Questa risoluzione è stata utile a far approvare l’accordo. Praticamente sulla base di promesse di buona volontà.
Segnalo anche che i negoziati commerciali sono iniziati abbondantemente prima della firma degli Accordi di Pace de La Habana del 2016, e il cui processo ha fortemente inciso nei processi di ratifica, essendo stato letto con l’ottimismo della applicazione di quel piano di azione in particolare verso il rispetto dei diritti umani.
A distanza di anni dall’applicazione dell’accordo commerciale, la situazione dei diritti umani in Colombia continua ad essere precaria, se vogliamo usare un eufemismo. La mancanza dell’implementazione degli Accordi di Pace da parte del governo di Duque, ha contribuito molto alla recrudescenza della violenza nel paese. Il governo non sta attuando tutta la parte relativa alla restituzione delle terre, prevista dalla legge di compensazione per le vittime già promulgata nel 2011 – in un paese con quasi 8 milioni di sfollati interni (su poco più di 40 milioni di abitanti), la Giustizia Speciale non viene avviata, e così via… Ho avuto modo, nel 2017, di partecipare a una missione organizzata dal Foro di Sao Paolo in qualità di componente del Gruppo di Lavoro sull’America Latina della Sinistra Europea, e ho potuto visitare alcune Zone Veredali, dove gli ex combattenti e le ex combattenti delle FARC dovrebbero permanere in attesa di formazione e re-incorporazione alla vita civile e, davvero, ci sarebbe molto da dire nel merito.
L’ Italia ha ratificato l’accordo firmato dall’Unione Europea il 5/10/2015. Nel caso qualcuno lo volesse sapere… e all’articolo 1 dell’accordo, si legge testualmente: “il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nonché del principio dello Stato di diritto è alla base delle politiche interne e internazionali delle parti. Il rispetto di tali principi costituisce un elemento essenziale del presente accordo.”
Nel merito non mi sembra di vedere grande attenzione da parte del governo italiano, nemmeno dopo l’omicidio di un proprio connazionale, Mario Paciolla, che stava lavorando per le Nazioni Unite proprio sul tema dell’applicazione degli accordi di pace de La Habana.
Cosa contiene questo accordo commerciale in estrema sintesi?
L’accordo prevede l’eliminazione delle barriere commerciali, come l’eliminazione dei dazi doganali su tutti i beni primari, agricoli, industriali o minerali, includendo semplificazioni per le pratiche doganali. In ambito non tariffario l’accordo prevede la liberalizzazione delle prestazioni dei servizi, degli investimenti, degli appalti pubblici, norme tecniche e standardizzazione dei prodotti alimentari. In più si aggiungono una serie di norme per la protezione della proprietà intellettuale per le imprese multinazionali e la riduzione di aiuti e sussidi per le imprese pubbliche. In ultimo, come tutti gli accordi di libero commercio di ultima generazione, contiene il sistema ISDS (Investor State Dispute Settlment) come meccanismo di soluzione di eventuali controversie, che di fatto mette gli Stati in condizioni di sudditanza potendo le transnazionali adire in caso di ipotetico mancato profitto contro gli Stati che emettano leggi a tutela invece della popolazione (ricordo il caso della Philip Morris contro l’Uruguay dopo la legge che vietava il fumo nei locali pubblici, e che è un rarissimo caso di vittoria di uno Stato contro una multinazionale[2]).
Non ci vuole una laurea per capire le implicazioni negative di questi contenuti.
E a distanza di anni, quali sono oggi le valutazioni?
Come già detto, da un punto di vista di sostegno all’integrazione regionale, con l’uscita di Venezuela e Bolivia dai negoziati e nonostante l’ingresso successivo dell’Ecuador, possiamo dire che sia stato un fallimento, e che anzi abbia acutizzato la frattura che si stava già verificando con il cambio di governi in atto nella regione.
La Colombia è stata ancor più relegata nell’ambito di fornitore di beni primari, come olio di palma e banane – con conseguente concentrazione di terre in poche mani, monoculture, sfollamento – e risorse minerarie, con l’aumento del chiamato “estrattivismo”, anch’esso all’origine dello sfruttamento massiccio dei territori, con scarso rispetto per l’ambiente. Invece l’Unione Europea esporta beni manifatturieri, danneggiando l’industria locale. La conseguenza è stato un netto peggioramento della bilancia commerciale della Colombia.
Inoltre si segnala un forte aumento dell’uso di pesticidi nelle coltivazioni intensive, la costante violazione dei diritti del lavoro, deforestazione e violazioni dei diritti umani, ampiamente documentate e in relazione all’aumento delle monoculture per l’esportazione.
Tutta la parte relativa alla clausola del rispetto dei diritti umani e del rispetto della sostenibilità si è dimostrata ipocritamente carta straccia. I piani di azione per la tutela dei diritti umani, sociali e ambientali, presentati nel 2012 in risposta alla risoluzione 2628 del Parlamento Europeo, accennata prima, sono di fatto senza nessuna applicazione. Mancano soprattutto meccanismi di sanzioni in caso di non applicazione, e quindi tutto si riduce alla volontà politica, che sappiamo bene dove si indirizza. I piani di azione non sono stati inseriti come parte del trattato commerciale, né sono state resi vincolanti per la firma dello stesso. Di questo è responsabile il Parlamento Europeo.
La disponibilità a redigere piani di azione di fatto è stata utilizzata da chi voleva che l’accordo fosse firmato, indipendentemente dalla cura e attenzione per i diritti di cui sopra. Niente di nuovo, purtroppo.
Il blocco mediatico, il silenzio dei media e della comunità internazionale, è incredibile. I rapporti sugli omicidi selettivi, e purtroppo ultimamente anche dei massacri, degli omicidi di massa, confermano la tendenza all’aumento: difensori e difensore dei diritti umani, sindacalisti, leader dei movimenti sociali. E continua la totale impunità e il coinvolgimento delle forze di sicurezza dello Stato e le esecuzioni extragiudiziali. Non sentono nemmeno più il bisogno di costruire i “falsi positivi”[3]. Vivono nella garanzia dell’impunità.
Un breve accenno alla mancata protezione delle biodiversità, che viene messa in secondo piano davanti alla difesa dei diritti di proprietà intellettuale, che, ancora una volta, privilegiano le monoculture a fronte della diversificazione e tutela delle coltivazioni per il consumo locale. Non solo, nel nome della protezione dei diritti intellettuali, in Colombia negli ultimi due anni c’è stato un aumento dei sequestri e distruzione delle coltivazioni di piccoli produttori che avrebbero infranto le regole legate ai brevetti sulle sementi. Il tutto accompagnato da un inasprimento delle pene, dal 2015, per violazione dei diritti intellettuali sulle sementi vegetali (solo per fare un esempio la INIA, Instituto Estatal de Innovación Agrícola, nel 2013 ha presentato la richiesta di brevetto per più di 50 varietà di patate…). Monsanto e simili ringraziano.
Una delle carenze maggiori dell’accordo riguarda il favoreggiamento di fatto del traffico di droga (quella che è da sempre la scusa perfetta per permettere la presenza di 7 basi statunitensi, ricevere valanghe di denaro e armi dagli Stati Uniti “per contrastare le coltivazioni illecite”), con l’eliminazione delle barriere doganali aumenta il rischio che possa essere esportata nascosta tra i beni commerciali senza essere rilevata.
Clamoroso nel 2014 il caso di scoperta di grandi quantità di cocaina trovate tra le casse di banane provenienti dalla Colombia, trovate a Berlino[4] da impiegati dei supermercati locali, e non dalle autorità doganali che non erano tenute a controllare il carico in virtù dei nuovi accordi vigenti. Peraltro caso che si è ripetuto nel 2019, con stessa scoperta fatta però in Italia di un carico diretto sempre in Germania[5], ma delle vecchie amicizie colombiane con la ‘Ndrangheta si dovrebbe essere informati da tempo. E drammaticamente esiste anche il procedimento inverso con il quale in Colombia entra con facilità la droga sintetica di fabbricazione europea.
L’accordo apre anche alla liberalizzazione dei servizi finanziari, con regole veramente deboli rispetto al riciclaggio del denaro e all’evasione fiscale. Questa modalità implica una profonda responsabilità europea, perché i paradisi fiscali come il Lussemburgo e i Paesi Bassi, per citare i più conosciuti, permettono ai criminali colombiani di riciclare i proventi delle miniere illegali e del traffico di droga. L’accordo commerciale non prevede nessun obbligo di applicazione delle poche clausole nel merito, lasciando tutto alla volontà politica delle parti, che evidentemente e ancora una volta hanno altri interessi.
Per concludere.
Ho voluto parlare dell’accordo di libero commercio perché parlando di guerra nascosta non vi è nulla di più subdolo, nascosto e dannoso di un trattato di libero commercio.
Tutti i benefici raccontati durante i negoziati di fatto non si sono concretizzati. Cominciamo da questo, come avevano previsto i movimenti sociali, sindacali, e tutte e tutti coloro che si oppongono a questo tipo di strategia commerciale che l’Unione Europea mette in atto ormai da anni, nascondendosi dietro un volto apparentemente più umano, ma che genera effetti nefasti come una guerra, in termini di impatto socio economico e ambientale. Per non parlare delle “garanzie” rispetto alla tutela dei diritti umani…
E ne ho voluto parlare perché permette anche di leggere una parte delle ragioni di aumento della violenza (pensiamo a tutto ciò che ruota attorno al tema della terra, di fatto origine del conflitto armato di più di sessanta anni fa, oggi al centro della restituzione delle stesse con la legge di riparazione e compensazione, e di nuovo al centro del conflitto con il ritorno – se ne erano mai andati? – dei grandi latifondisti).
Qualcosa si muove nel silenzio assordante della comunità internazionale?
Forse, ma nel silenzio dei media mainstream.
Nel giugno 2020, 28 eurodeputati hanno inviato una lettera aperta al presidente Duque, con la quale, unendosi alle voci di personalità e leader politici colombiani, denunciavano il presunto spionaggio illegale, l’assenza di protezione per i difensori e le difensore dei diritti umani, e l’uso dei fondi per la pace per altri scopi (chissà quanto a che vedere questa denuncia con la morte del cooperante italiano Mario Paciolla mi viene da pensare). Tra le altre cose la lettera esprime la preoccupazione per lo spionaggio, la schedatura massiccia delle persone, che rivelano la vera politica di difesa e le dottrine militari all’interno delle Forze Armate della Colombia, in particolare con riferimento alle esecuzioni extragiudiziali[6].
Dobbiamo usare queste dichiarazioni e fare pressioni politiche da questa parte del mondo, colpendoli dove fa loro più male: il portafoglio.
La clausola di sospensione è prevista nell’accordo e permette a ciascuna delle parti appunto di adottare “immediatamente misure appropriate” nel caso che l’altra parte violi uno degli elementi essenziali dell’accordo.
Su questo si è basata la proposta di sospensione che è stata presentata martedì 6 ottobre 2020 al Parlamento europeo da Luke Ming Flanagan, europarlamentare irlandese, a nome del gruppo GUE/NGL come emendamento al report annuale del 2019 N. 2197 che dice: “48 bis. Si chiede alla Commissione, tenendo conto delle gravi violazioni dei diritti umani commessi dalle forze di sicurezza in Colombia (attenzione il termine è generico e non fa specifico riferimento alle sole forze armate), che applichi la clausola sulla democrazia e diritti umani di questi accordi, visto che questi aspetti sono elementi essenziali di questi accordi; segnala che la sospensione può essere parziale y concentrarsi sui settori economici che traggono vantaggio dagli omicidi selettivi, e dallo sfollamento della popolazione, come quello della produzione dell’olio di palma e banana; chiede ai Parlamenti nazionali che non hanno ancora ratificato questo accordo, che non lo facciano fino a quando non si instauri un meccanismo efficace che permetta di garantire il rispetto del piano d’azione e degli elementi essenziali dell’accordo”.
Per la cronaca il risultato della votazione è stato: 136 a favore, 541 contrari (tutti i Popolari e i Socialisti, tra gli altri), 19 astenuti[7].
Giusto per ricordare chi sono gli alleati veri, e chi invece privilegia gli interessi, tenuto conto della presenza di circa 18.000 lobbisti (numero a mio avviso al ribasso) che ruotano attorno al Parlamento europeo. Ma è importante sapere a chi ci si può rivolgere per fare campagna e pressioni e a chi si può chiedere conto politico delle proprie scelte.
So che tutto quello che sto dicendo possono sembrare solo parole, che non cambiano la vita delle persone che oggi continuano ad essere minacciate, uccise, perseguitate, e che si sentino sole nella loro lotta. Ma per noi possono essere strumenti per fare pressione politica, per rompere quel muro del silenzio che opprime, esigere che vengano applicati gli accordi di pace o che – appunto – si sospendano gli accordi commerciali finché non vengano messe in atto reali misure di tutela e protezione, con misure vincolanti e sanzioni.
Inoltre tutto questo permetterebbe di individuare le imprese transnazionali su cui fare pressione, denuncia, boicottaggio: tutti gli accordi di libero commercio sono di fatto teste di ponte per l’ingresso delle multinazionali nei paesi e per i loro profitti.
Qualcuno sta chiedendo la sospensione dell’accordo per il CILE, che invece in un modo o nell’altro riesce a bucare il silenzio dei media, quantomeno sui social.
Black Lives Matter, è diventato un movimento mondiale, e come possiamo fare perché anche la vita dei colombiani e delle colombiane conti?
Credo che su questo dovremmo interrogarci e provare ad agire perché la Colombia non sia destinata ad altri cento anni di solitudine.
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=44579