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LE NUOVE SFIDE DELLA SOCIETÀ CURDA NEL MEDIO ORIENTE CONTEMPORANEO 

di Bruno Bevilacqua

 

L’operazione “Claw – Sword” o “Spada ad artiglio” con la quale la Turchia ha bombardato il Nord della Siria con l’obiettivo di “punire” e “neutralizzare” i curdi del PKK – ritenuto colpevole dell’esplosione, mai rivendicata, di Piazza Taksim del 13 novembre – non ha sortito la stessa indignazione nell’opinione pubblica occidentale del 2019, anno in cui sembrò leggermente più scossa dall’operazione “Sorgente di Pace”.

Il viaggio di sola andata di Mahmut Tat – membro del PKK estradato a inizio dicembre – da Stoccolma ad Ankara, insieme al quasi silenzio della comunità internazionale rispetto al nuovo attacco di Erdogan ci dicono quello che già sappiamo: che l’Occidente si pone nei confronti del popolo curdo solo in funzione di logiche utilitaristiche, e che sarebbe impensabile altrimenti. Già il progetto di nascita di un Kurdistan unito presente nel Trattato di Sèvres del 1920 – stipulato con l’intento di smantellare il decadente Impero Ottomano – e poi cancellato dal Trattato di Losanna del 1923 – atto dovuto verso la nuova Repubblica turca- rende chiaro come la comunità curda possa essere rappresentata da una funzione le cui uniche variabili sono le spinte identitarie interne e le forze centrifughe delle grandi potenze. 

Il popolo curdo vive storicamente la condizione di essere stanziato in terra di contesa. Dalla fine della Prima guerra mondiale, il suo territorio è diviso tra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Nel periodo del bipolarismo globale si trovava invece anche a cavallo tra Nato, mondo arabo ed influenza sovietica. Oggi si trova ad affrontare le ostilità tra sunniti e sciiti che si combattono il primato mediorientale, la Turchia che sogna di tornare Impero e la presenza – mai secondaria – di Stati Uniti e Russia nella regione. 

Nel suo articolo “Schrödinger’s kurds: transnational kurdish geopolitics in the age of shifting borders” Akın Ünver spiega come questa suddivisione determini una frammentazione socioculturale oltre che politica della società curda, e come questa vada a complicare il quadro delle forze che agiscono sulla suggestiva idea di un Kurdistan unito politicamente.

La regione autonoma curda dell’Iraq (KRG) è fortemente sunnita ed ha composizione tribale. La sua autonomia le permette di prendere decisioni indipendenti anche in politica estera e di scegliere le proprie alleanze ma, dall’altro lato, non ha compiuto un effettivo percorso democratico e rimane ancora oggi dilaniata da corruzione e dispotismo.

In Iran, al contrario, il processo di assimilazione della popolazione curda è stato invasivo ed ha dato poche possibilità di sviluppo alla regione mentre, nel Kurdistan occidentale, la Turchia ha aperto negli ultimi decenni ad un coinvolgimento dei curdi nella vita del paese in nome della fratellanza musulmana.

Al di là di questa suddivisione vi è il PKK: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan nato nel 1978 che ha combattuto -anche con atti di terrorismo- per un paese indipendente, comunista e egualitario.

Un dato da prendere in considerazione per comprendere le interazioni tra queste realtà è l’abbassamento dell’età media della popolazione che dal nuovo millennio vive un periodo di profondo ringiovanimento dovuto al boom delle nascite e all’abbassamento della mortalità infantile. I giovani curdi si ritrovano quindi a crescere spesso in ambienti religiosi e bigotti amministrati da istituzioni che sentono estranee. Per questo motivo in molti decidono di lasciare la propria terra per abbracciare un’altra ideologia curda, quella progressista del PKK. In questo modo il Partito stanziato a Kobane – nel Nord della Siria – arruola giovani donne e uomini provenienti dagli altri tre paesi fondando su questa aspettativa la propria capacità militare per affrontare lo Stato Islamico e la Turchia. Elemento fondamentale dei rapporti tra il Partito dei Lavoratori e le altre realtà curde è la religione. Il PKK non è antireligioso, ma fortemente secolarista, la sua visione della religione può essere paragonata a quella di Ataturk. La religione e la tradizione svolgono però un ruolo divisivo e polarizzante nella società curda, e questo determina anche i rapporti politici delle diverse realtà territoriali. Il governo regionale curdo dell’Iraq – sostenitore della fratellanza islamica – è quindi molto più vicino alla Turchia sunnita di Erdogan rispetto al PKK. Le affinità religiose e tradizionali possano risultare, come spesso accade, più importanti di quelle nazionali, etniche e linguistiche. 

Il 2005, anno della Costituzione irachena che ha riconosciuto l’autonomia del KRG ed il 2011, anno dell’inizio della guerra in Siria, sono due punti di svolta per l’evoluzione del significato geopolitico del territorio curdo.

A partire dal 2005 i rapporti commerciali tra KRG e Turchia si sono intensificati esponenzialmente. In questi anni, la politica estera di “sunnificazione” di Erdogan ha portato ad investimenti di miliardi di dollari nella regione. Inoltre, la ricchezza energetica del KRG richiede l’appoggio della Turchia per poter essere esportata in Europa: per questo motivo il ruolo svolto dal gasdotto turco-iracheno è fondamentale per gli interessi di entrambi. Dal 2010 al 2017 si contano un minimo di 13 attacchi del PKK al gasdotto – ognuno dei quali ha causato perdite pari a decine di milioni di dollari giornalieri – e per questo motivo la cooperazione anche in tema di sicurezza è diventata centrale nei rapporti tra Ankara ed Erbil, la capitale della regione.

Ankara è quindi da un lato soddisfatta dai rapporti con il KRG e ne sostiene l’autonomia. Dall’altro lato, è interessata a limitarne l’indipendenza politica ed energetica, perché un’eccessiva sovranità sul territorio potrebbe risultare una minaccia sia economica sia territoriale. Non a caso le rivendicazioni territoriali del KRG nei confronti del governo di Baghdad – come quelle relative alle città di Mosul e Kirkuk- hanno sempre trovato la forte opposizione di Erdogan.

Anche la posizione iraniana rispetto al KRG è duplice. Teheran non può non vedere di buon occhio l’indebolimento di un Iraq fortemente decentralizzato, ma al contempo condivide le paure di dover confrontarsi con la propria popolazione curda confinante con quella irachena sempre più padrona delle proprie istituzioni.

Il problema dell’espansione territoriale curda è cresciuto a partire dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, che ha permesso al Partito dei Lavoratori del Kurdistan di occupare gran parte dell’area settentrionale del paese.

Lo scontro con l’ISIS ha portato i membri del PKK di tutti i paesi ad emigrare nel Rojava e a combattere al fianco dell’Unità di Protezione Popolare (YPG) sostenuta dagli Stati Uniti. La Turchia, oltre ad avere reticenze in merito ad un possibile sostegno all’YPG – e quindi al PKK ritenuto, ricordiamolo, organizzazione terrorista anche dai paesi NATO – vede con preoccupazione l’idea di uno stanziamento curdo su tutto il confine turco-siriano, che significherebbe conferire ai curdi una cintura che va da Kars, al confine con l’Armenia, fino al Mediterraneo. Un Kurdistan con vista mare che ricoprirebbe gran parte del confine asiatico della Turchia (Siria, Iraq e Iran) avrebbe un valore strategico insperato ed eliminerebbe la dipendenza del KRG da Ankara per i rapporti con l’Europa: avendo accesso diretto al Mediterraneo, il gasdotto turco-iracheno perderebbe clamorosamente di importanza. Questa prospettiva deve comunque fare i conti con gli equilibri interni alla popolazione curda che, davanti ad una così conveniente contiguità territoriale, potrebbe rivalutare le proprie aspirazioni individualistiche e riprendere in considerazione il progetto politico di una riunificazione etnico-linguistica. 

L’assenza di vuoti di potere nella politica internazionale è quanto mai vera nell’esperienza curda, la quale si ritrova continuamente divisa nelle tensioni delle potenze della regione. È però evidente che un’analisi della complessità di questi rapporti richiederebbe anche un’estrazione capillare degli interessi e delle molteplici contraddizioni che caratterizzano la società curda, ma che non devono comunque mettere in secondo piano il sentimento di appartenenza di un’intera popolazione che ancora oggi è in cerca di una propria dimensione non solo territoriale, ma anche identitaria.

 

Bruno Bevilacqua

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