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IL CONFLITTO UCRAINO NELL’ERMENEUTICA DIVERGENTE DI NATO USA E FEDERAZIONE RUSSA 

 

Jacques Baud, ex membro dell’intelligence strategica svizzera, con un passato nella Nato quale specialista per i Paesi dell’Est Europa e i programmi nucleari (2014-2017), nel suo ultimo libro (Ukraine entre guerre et paix, Max Milo Ed., 2023) rilegge con lente critica la vicenda ucraina attraverso l’analisi delle ragioni sostanziali, insieme agli aspetti di legalità e legittimità internazionali.

In un tempo di filosofica malinconia, le devastazioni intellettuali della macchina della Menzogna vengono digerite da un pubblico frastornato da un impaurito analfabetismo anche quando contraddicono la logica euclidea.

Sfidando una criminalizzazione del dissenso quale fenomeno inedito nelle società occidentali del secondo dopoguerra, Jacques Baud propone con coraggio una diversa esegesi degli accadimenti. E se questa potrà apparire provocatoria, la sua acquisizione ha il pregio di scuotere il torpore di chi, consapevole del Grande Inganno, tende tuttavia a impigrire, volgendo lo sguardo altrove.

La narrativa occidentale alimenta il convincimento – afferma J. Baud – che la guerra in Ucraina sia stata pianificata da V. Putin con il fine di riposizionare la Russia sul quadrante un tempo occupato dall’Unione Sovietica, alla riconquista del suo perduto status imperiale. Essa è tuttavia fallace, poiché dall’implosione dell’Urss[1] (1991) non si registra alcun atto o dichiarazione a suffragio di ciò, nulla! Numerosi osservatori occidentali e larga parte della pubblica opinione (le cui convinzioni sono occultate) reputano invece che la radice della guerra abbia natura strategica e vada collocata nell’intento premeditato di Nato-Usa di accerchiare la Russia, indebolirla e se possibile frantumarla, per saccheggiarne le risorse (gas, petrolio, prodotti agricoli e minerali) e riservare poi analogo trattamento alla Cina, la nazione più insidiosa per l’egemonismo Usa nel mondo.

Il finto impegno americano, assunto all’indomani del crollo sovietico e rapidamente infranto, di non spingere la Nato a ridosso della frontiera russa ne è la prova più plateale. Da allora, il numero dei membri dell’Alleanza Atlantica è raddoppiato, da 16 a 32, avendo assorbito tutte le nazioni esteuropee, ad eccezione di Ucraina, Georgia e Serbia. J. Baud si domanda quale possa mai essere il fine di tale espansione, se non quello illustrato, dal momento che la Russia – erede dell’Unione Sovietica – aveva manifestato il più chiaro intento di voler entrare nell’orbita politica ed economica euro-occidentale, essendo divenuto persino membro del G8 e osservatore Nato.

Alla luce del diniego Usa a dar spazio anche alla prospettiva euro-asiatica, rinunciando all’esclusività euroatlantica, Mosca si convince che le mire Usa-Nato non erano mutate dai tempi dell’Unione Sovietica: la Federazione Russa resta anch’essa troppo grande, ricca e ingombrante per la patologia americana di dominio sul pianeta. Del resto, oltre ad essere un ghiotto bottino in caso di capitolazione, Russia ed Europa sono naturalmente complementari: energia russa contro macchinari, capitali e beni di qualità europei, medesima religione, cultura e colore di pelle. La possibile saldatura Europa-Russia relegherebbe la potenza talassocratica americana aldilà dell’Atlantico, lontana dall’heathland, il cuore del mondo. In tal caso, il potere passerebbe di mano, dal mare (l’Anglosfera a dominio Usa) alla terra, l’Eurasia, un insieme di nazioni popolose e dinamiche, tra cui Cina, India, paesi centroasiatici, Pakistan e via dicendo.

Alla luce di quanto precede, gli obiettivi Nato-Usa sul teatro ucraino, rileva J. Baud, sono la sconfitta della Russia, la sostituzione del suo coriaceo presidente con un clone di B. Yeltsin, affinché l’asservimento politico e il processo estrattivo di ricchezze, iniziato nel 1991 e conclusosi con l’avvento di V. Putin, possa riprendere il suo corso.

Il nostro autore reputa che V. Putin, a dispetto dell’accerchiamento Nato-Usa (basta uno sguardo sulle basi occidentali che circondano la Russia), non avrebbe comunque inviato l’esercito in Ucraina, a meno che non vi fossero stati dispiegati armi nucleari o di difficile intercettazione, capaci di costituire una minaccia esistenziale alla sicurezza della Federazione, poiché pur politicamente sostenibile ciò non sarebbe bastato – secondo il diritto internazionale – a conferire legalità o legittimità all’intervento armato. In verità, afferma J. Baud, sono gli occidentali ad avanzare tale spiegazione. Per il governo moscovita, invece, le ragioni – formali e legittime – alla base dell’operazione militare speciale in Ucraina sono altre, tutte riconducibili alla necessità di proteggere le popolazioni russe del Donbass.

Prima di entrare in dettaglio, J. Baud ricorda l’evidenza secondo cui la sicurezza nazionale costituisce la priorità di ogni sistema statuale, senza distinzione tra democrazie, autocrazie o dittature, ed essa precede la spinta ad espandere la propria influenza oltre frontiera, per via pacifica o con l’uso della forza. Egli richiama l’evidenza (da noi occultata) che la Nato è un’organizzazione militare nella quale armamenti, finanziamenti e strategie sono decise da Washington, mentre il suo carattere difensivo, se mai vi è stato, è da tempo dileguato nella storia. Nella percezione russa, la sola che conti, la rappresentazione occidentale che l’espansione della Nato ad Est non rappresenterebbe una minaccia alla sicurezza russa e che ogni paese ha il diritto di definire le alleanze che reputa più congrue alla propria sicurezza, s’inquadra in un’esegesi strumentale che ignora l’impudente pratica del doppio standard. Chiunque sia dotato di un minimo di onestà intellettuale può rinverdire la memoria con la sfiorata tragedia di Cuba (1962), le alleanze che hanno portato alla Prima guerra mondiale (e poi alla seconda) e la tuttora imposta Dottrina Monroe (1823), secondo cui nessun esercito non-americano sarebbe stato tollerato nell’emisfero occidentale, per presunte, ipertrofiche ragioni di sicurezza dell’impero americano.

Nelle riflessioni di J. Baud il conflitto ucraino è stato pianificato a tavolino, con l’intento di provocare l’inevitabile intervento russo. Secondo l’autore, una volta costruite le premesse strategiche, ingresso de facto della Nato in Ucraina e invito formale a Ucraina/Georgia a farne parte (G. W. Bush, vertice di Bucarest, 2008) occorreva creare l’occasione contingente per spingere la Russia a intervenire. Una volta caduta in trappola, Mosca sarebbe capitolata sotto la pressione congiunta di un’insostenibile economia di guerra e delle dure sanzioni applicate dall’Occidente e da tutti o quasi i paesi del mondo. V. Putin non avrebbe potuto sfuggire alla trappola, sia per il dovere etico di difendere la propria gente, sia perché convinto (erroneamente secondo Nato-Usa) che ne sarebbe uscito vincitore.

Le cose come sappiamo sono andate diversamente. Il mondo non si è associato all’Occidente e la Russia non è capitolata, anzi vi ha persino trovato l’occasione per un chiarimento strategico con Nato-Usa, mentre a un anno e mezzo dall’avvio dell’operazione militare speciale è a tutti chiaro che si tratta di un conflitto multiplo, tra Ucraina e Russia, tra Nato-Usa e Russia, tra Usa ed Europa e sullo sfondo l’indebolimento strategico della Cina. La storia insegna che gli imperi fanno fatica ad accettare di non essere eterni, cosicché invece di guardare avanti, volgono lo sguardo indietro.

A questo punto, gli eventi si dipanano seguendo una logica palese. Con il colpo di stato del 2014 istigato e finanziato dall’intelligence Usa[2] viene sostituito un presidente legittimo (non pregiudizialmente filorusso, come ama presentarlo la macchina mediatica occidentale) con uno illegittimo e pregiudizialmente filoccidentale. Quale primo provvedimento il nuovo governo decreta la cancellazione della cultura e della lingua russe, accendendo la miccia delle proteste nelle province russofone. Per ristabilire l’ordine, il governo di Kiev, non potendo dispiegare l’esercito composto anche da russofoni, istituisce unità ultranazionaliste (battaglioni Azov e Pravyy Sector), che secondo Baud meritano l’epiteto di neonaziste, sia per l’ideologia che professano (il culto di Stepan Bandera, responsabile accertato del massacro di centinaia di migliaia di ebrei e polacchi durante il secondo conflitto mondiale), sia per la pratica di violenza (il massacro di russofoni nella sede sindacale di Odessa, nel maggio 2014, quale manifesto paradigma). I mezzi d’informazione europei tendono a confondere tra loro i termini nazista e neonazista. Il nazismo è invero l’ideologia politica tedesca degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, mentre il neonazismo è un neologismo che riflette un modello di comportamento sociale basato sulla violenza e l’imposizione di potere e privilegi, non una costruzione ideologica o teorica, ma una pratica di odio contro chiunque si opponga alla forza bruta esercitata al di fuori della legge.

I noti accordi di Minsk firmati nel 2015 sotto gli auspici dell’Osce[3] avevano quali autorevoli garanti Francia, Germania, per la parte ucraina, e Russia per il Donbass e avrebbero dovuto porre le basi per una soluzione politica del conflitto, nel presupposto da tutti condiviso che quei territori sarebbero rimasti sotto sovranità ucraina. I citati paesi occidentali, tuttavia, non hanno onorato la loro parola, trasgredendo e umiliando l’etica del diritto internazionale. Per di più, tali accordi erano stati approvati con una Risoluzione[4] del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Uniti, che in tal modo aveva loro conferito il valore di massima norma internazionale pattizia.

Le candide confessioni di A. Merkel, N. Sarkozy e W. Poroscenko (all’epoca i tre erano a capo dei rispettivi governi) ci rivelano che tali accordi erano stati firmati con il funesto intento di guadagnar tempo, armare l’Ucraina e far la guerra alla Russia, sulla scorta di un cinismo politico che merita la più dura delle censure. Per quanto concerne la Francia, il mondo si sarebbe aspettato ben altro comportamento da un membro permanente del CdS delle N.U.! La Germania, poi, che ama offrire di sé l’immagine di un paese sempre rispettoso della Legge, interna o internazionale che sia, nasconde invece, e non è la prima volta, un volto fariseo, corrotto e arrogante (altro che mamma/Mutter Merkel!). La cosiddetta leadership ucraina, infine (ma questo non meraviglia), conferma che si può giocare persino con il destino del proprio paese e la vita della propria gente.

L’infame dialogo avvenuto nel 2014 tra G. Pyatt[5] (allora ambasciatore Usa a Kiev) e Victoria Nuland – allora e tuttora sottosegretario di stato Usa, passata alla storia per il suo eloquio forbito (“fuck Europe”) – costituisce un’ulteriore evidenza, se ve ne fosse il bisogno, che quel plateale tradimento d’intenti costituisce l’esito di interferenze americane su Berlino e Parigi (con Kiev non ve n’era necessità) con lo scopo di impedire ogni percorso di compromesso e pacificazione.

 Si arriva così al 24 marzo 2021, quando il presidente ucraino V. Zelensky firma un decreto di mobilitazione con l’obiettivo di riconquistare la Crimea e il sud del paese, concentrando ingenti forze militari davanti al Donbass con l’assistenza discreta della Nato. È allora che il presidente russo si convince dell’inevitabilità dell’intervento, facendo ricorso al criterio/principio di responsibility to protect (responsabilità a proteggere), codificato dalle Nazioni Unite nel 2004-2005 e a cui fanno riferimento oltre 80 Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, tra cui quelle riguardanti Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Liberia, Libia, Mali, Somalia, Sud Sudan, Siria, Yemen e altri: che poi in alcuni di questi paesi si sia fatto strumentale ricorso a tale principio allestendo deplorevoli messinscene, come le tombe comuni sulle spiagge libiche e lo sterminio del popolo kosovaro, beh questa è ancora un’altra storia. Nel Donbass le vittime ci sono state e anche tante.

Il principio di responsibility to protect è centrato su tre pilastri[6]: a) ogni stato ha l’obbligo e la responsabilità di proteggere la propria popolazione. Se il governo di Kiev avesse rispettato tale obbligo, 14.000 suoi concittadini del Donbass non sarebbero morti; b) il secondo pilastro è il ruolo dei paesi vicini o alleati che avrebbero potuto assistere l’Ucraina in tale frangente. Qui, la contraddizione è ancor più manifesta, dal momento che gli accordi di Minsk, come rilevato, erano stati firmati da parte ucraina-occidentale nel presupposto che non sarebbero stati rispettati; c) il terzo pilastro, infine, contempla il possibile intervento di altri paesi a difesa delle popolazioni in pericolo, e questo chiama in causa la Russia.

Sebbene la responsibility to protect – nelle riflessioni di J. Baud – non sia un principio di legalità internazionale piena, essa appartiene tuttavia alla categoria giuridica della legittimità (secondo le acquisite statuizioni in ambito Nazioni Unite) e implica pertanto il diritto morale/politico a intervenire in difesa di popolazioni aggredite, mentre il termine legalità implica il diritto formale-legale di farlo. In definitiva, ad avviso di Baud, nel Donbass sussistevano in quel momento sufficienti condizioni per legittimare l’intervento russo, per di più a favore di popolazioni etnicamente e linguisticamente russe.

Non solo, per rafforzare la legalità dell’intervento, il giorno prima dell’avvio dell’operazione militare speciale (21 febbraio 2022), la Russia procede al riconoscimento formale delle due repubbliche autoproclamatesi indipendenti di Donetsk e Lugansk (riconoscimento che sino ad allora Mosca aveva rifiutato di concedere nel rispetto degli accordi di Minsk, i quali implicavano il mantenimento della sovranità ucraina sul Donbass) e alla stipula di un trattato di assistenza reciproca. A seguire, con il via libera del parlamento (Duma) – pur tirando un po’ il contesto per i capelli, e tuttavia nel rispetto del diritto internazionale – Mosca invoca l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite[7], che in caso di aggressione consente la legittima difesa senza previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza e ordina al suo esercito di passare la frontiera.

A guerra avviata, quale fisiologica evoluzione di ogni conflitto – sottolinea J. Baud – gli obiettivi russi si arricchiscono di altre dimensioni: no all’ingresso formale di Kiev nella Nato, o anche solo de facto come stava avvenendo, demilitarizzazione e denazificazione, vale a dire eradicazione della destra estrema dai gangli statuali dell’Ucraina.

Un aspetto di etica sociale rilevato da J. Baud, su cui l’informazione occidentale stende un pietoso velo, riguarda la legislazione ucraina sulle minoranze etniche. Il 1° luglio 2021 Kiev promulga una norma che prevede diritti diversi per cittadini ucraini su basi etniche. In tempi moderni, solo il nazismo aveva approvato una simile legislazione: nel 1935 con le leggi di Norimberga ai cittadini tedeschi non ebrei vengono riconosciuti diritti negati ai cittadini tedeschi di etnia ebraica. Oggi come allora per lo stato ucraino non importa quel che fa un suo cittadino, ma solo quel che è. Un vulnus valoriale assoluto, slegato dunque da ogni profilo di responsabilità personale, che incide sulla costituzione naturale dell’essere umano, rinnegando l’essenza delle nozioni di comunanza, democrazia e dialettica stato/cittadino. Tale legge esprime appieno il carattere neonazista di una parte della dirigenza di Kiev, come provano numerose evidenze, tra cui immagini e testimonianze (sono divenuti familiari, ad esempio, i carri armati con la bandiera neonazista di Prevyy Sector, gruppo paramilitare che sostiene la purezza della razza ucraina). In quell’occasione, l’allora presidente ucraino Poroshenko affermava: “I nostri figli andranno negli asili e nelle scuole, i loro (i russi, n.d.r.) vivranno nelle cantine[8]”.

Va detto che anche altre minoranze etniche in Ucraina soffrono varie forme di abusi e discriminazioni, tra cui quella ungherese che vive in Transcarpazia, estremo ovest dell’Ucraina. Non sorprende in proposito che il capo del governo ungherese, Viktor Orban, abbia rifiutato di aderire alle sanzioni contro la Russia[9] e il governo rumeno oscilli costantemente, alla luce del medesimo trattamento riservato alla piccola minoranza rumena in Ucraina, anch’essa discriminata.

Per quanto riguarda, infine, le accuse di crimini di guerra rivolte alla Russia, J. Baud afferma di concordare con le dichiarazioni del ministro degli esteri svizzero, Ignazio Cassis, secondo il quale un crimine di guerra è tale solo quando un’indagine imparziale e indipendente lo abbia dimostrato, nel rispetto delle procedure previste dal diritto internazionale. A Bucha, ad esempio, un’indagine internazionale imparziale non ha mai avuto luogo, e se mai ve ne fosse una anche la Russia dovrebbe farne parte, diversamente da quanto avvenuto nell’episodio dell’aereo MH 17 abbattuto sui cieli dell’Ucraina nel 2014. Sorprende che la Macchina della Verità occidentale non faccia rilevare che ogni accertamento di eventi e responsabilità richieda una postura neutrale e dunque la partecipazione di tutte le parti in causa.

In proposito, rileva J. Baud, un’indagine indipendente di giornalisti americani sugli eventi occorsi a Bucha[10] non ha potuto raccogliere alcuna prova che i russi abbiano commesso crimini di guerra. Non è un caso che la stampa occidentale abbia smesso da tempo di interessarsi a Boucha. Anche nel caso dei bambini presuntamente deportati dall’esercito russo – accusa alla base dell’incriminazione del Tribunale penale internazionale nei riguardi di V. Putin, continua J. Baud – i medesimi giornalisti hanno accertato che i bambini erano stati allontanati da Donetsk per essere messi in salvo poiché quel territorio veniva bombardato dagli ucraini, e per di più con il consenso dei genitori. È anche emerso che i presunti campi di concentramento nei quali i bambini sarebbero stati rinchiusi erano invero alberghi dotati di ogni confort, e che la maggior parte di essi è poi tornata dai genitori, alcuni dei quali hanno comprensibilmente negato di aver inviato i loro figli in Russia per non subire rappresaglie da parte ucraina, mentre per gli orfani sono state adottate altre misure.

J. Baud rileva infine che, diversamente dalla narrativa diffusa in Occidente, non vi sono evidenze che guerra, sanzioni e minacce abbiano generato malcontento nella popolazione russa verso il governo e il suo presidente, che godono entrambi di ampia popolarità. Sarebbe invece utile riflettere sulle riflessioni del politologo americano della Chicago University, J. Mearsheimer, secondo il quale se la Russia avvertisse l’avvicinarsi di una sconfitta, i rischi di escalation nucleare si aggraverebbero. Per il bene di tutti, dunque, occorrerebbe darsi da fare affinché ciò non avvenga. Coloro che hanno il potere di porre fine alle ostilità – decretare un cessate il fuoco, congelare le truppe sul terreno e aprire un tavolo di negoziato – portano la responsabilità primaria di difendere la vita sul pianeta, un obiettivo che supera ragioni o torti delle parti in conflitto. Le guerre del resto finiscono sempre con la vittoria di una delle parti o con un compromesso, che a sua volta comporta sacrifici: tertum non datur.

Un ultimo rilievo che si abbina bene alle dinamiche in atto chiama in causa il capolavoro “1984”. In esso G. Orwell afferma che la guerra, una volta divenuta endemica, viene assorbita quale fenomeno naturale, una presenza imprescindibile, sine die, finendo così per non distinguersi più dallo status di pace. Il suo reale obiettivo non è infatti la sconfitta del nemico, ma il mantenimento dello status quo tra le classi all’interno di un sistema politico-istituzionale. In buona sostanza, essa ha lo scopo di tutelare potere e ricchezze di coloro che siedono in cima alla piramide, che all’occorrenza sono in grado di mobilitare le classi di servizio: politici, giornalismo/media, accademia e burocrazia di enforcement, servizi di sicurezza, soldati, forze dell’ordine). In tale scenario, il controllo della narrativa pubblica è essenziale: essa divide amici e nemici, mescola verità e menzogna, diffonde paure e instabilità per disarticolare il fronte della resistenza contro il nemico principale, oggi l’imperialismo occidentale, i produttori di armi e i generatori di conflitti, a loro volta nemici di chiunque difenda la sovranità nazionale e la giustizia sociale, sia tra le nazioni che al loro interno.

 

Alberto Bradanini – www.lafionda.org

 

[1] Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche

[2] Le evidenze sono numerose, tra cui lo scellerato colloquio Nuland-Pyatt del gennaio 2014, ormai scolpito nella storia

[3] Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa

[4] https://press.un.org/en/2015/sc11785.doc.htm

[5] https://www.france24.com/en/20140207-ukraine-usa-eu-nuland-leaked-audio

[6] La responsabilità di proteggere le popolazioni dal genocidio, da crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica è emersa quale fondamentale principio di estensione mondiale con l’adozione del documento finale del Vertice mondiale delle Nazioni Unite nel 2005.

La responsabilità di proteggere – nota come R2P – è oggi una norma internazionale che mira a garantire che la comunità internazionale possa impedire le violenze di massa, come genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Il concetto è stato messo a punto in risposta al fallimento dell’azione della comunità internazionale nel rispondere alle atrocità di massa commesse in Ruanda e nell’ex Jugoslavia nell’ultima decade del XX secolo. Il Comitato internazionale di intervento e sovranità statale ha messo a punto la R2P nel corso del 2001. La nozione di R2P – adottata poi all’unanimità nel 2005 al vertice mondiale delle Nazioni Unite, il più grande raduno di capi di Stato e di governo della storia – è ben articolata nei paragrafi 138 e 139 del World Summit Outcome Document, qui di seguito ripreso:

Par. 138. Ogni singolo Stato ha la responsabilità di proteggere le proprie popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Tale responsabilità comporta la prevenzione di tali reati, compreso il loro incitamento, attraverso mezzi appropriati e necessari. Accettiamo questa responsabilità e agiremo di conseguenza. La comunità internazionale è tenuta, se del caso, a incoraggiare e assistere gli Stati a esercitare tale responsabilità e sostenere le Nazioni Unite nell’istituire una capacità di allerta rapida. Par. 139. La comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha altresì la responsabilità di utilizzare adeguati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici, conformemente ai capitoli VI e VIII della Carta, per contribuire a proteggere le popolazioni da genocidio, crimini di guerra, e pulizia etnica e da crimini contro l’umanità. In tale contesto, siamo pronti a intraprendere un’azione collettiva, in modo tempestivo e decisivo, attraverso il Consiglio di sicurezza, in conformità con la Carta, compreso il capitolo VII, caso per caso e all’occorrenza in cooperazione con le organizzazioni regionali competenti, qualora i mezzi pacifici fossero inadeguati e le autorità nazionali non riuscissero manifestamente a proteggere le loro popolazioni dal genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Sottolineiamo la necessità che l’Assemblea Generale continui a considerare la responsabilità di proteggere le popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità e sue implicazioni, tenendo presente i principi della Carta e del diritto internazionale. Intendiamo anche impegnarci, se necessario e opportuno, ad aiutare gli Stati a costruire la capacità di proteggere le loro popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità, e ad assistere coloro che sono in pericolo (under stress) prima che scoppino crisi e conflitti. La R2P stabilisce tre pilastri di responsabilità.

Primo pilastro: ogni stato ha la responsabilità di proteggere le proprie popolazioni da quattro crimini e atrocità di massa: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica;

Secondo pilastro: la più ampia comunità internazionale ha la responsabilità di incoraggiare e assistere i singoli Stati nell’adempimento di tale responsabilità;

Terzo pilastro: se uno Stato non riesce manifestamente a proteggere le proprie popolazioni, la comunità internazionale deve essere pronta a intraprendere un’azione collettiva appropriata, in modo tempestivo e deciso, e in conformità con la Carta delle Nazioni Unite. Nel gennaio 2009 il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto sull‘attuazione della responsabilità di proteggere, che si articola in tre pilastri. Successivamente, nel luglio 2009, si è tenuto il primo dibattito all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla responsabilità di proteggere. Nel corso di tale dibattito, i paesi membri delle Nazioni Unite hanno riaffermato a stragrande maggioranza l’impegno del 2005 e l’Assemblea Generale ha approvato una risoluzione consensuale (A/RES/63/308), prendendo atto della relazione del Segretario Generale. Da allora, il Segretario Generale ha pubblicato relazioni annuali prima del dialogo interattivo informale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Responsabilità di Proteggere. Nel giugno 2018, l’Assemblea Generale ha tenuto il suo primo dibattito sulla Responsabilità di Proteggere dal 2009. La R2P è stata invocata in oltre 80  risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riguardanti  le crisi in Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Liberia, Libia, Mali, Somalia, Sud Sudan, Siria e Yemen, nonché risoluzioni tematiche riguardanti la prevenzione del genocidio, la prevenzione dei conflitti armati e la limitazione del commercio di armi leggere e di piccolo calibro. La responsabilità di proteggere è stata anche invocata in più di 50  risoluzioni del Consiglio dei diritti umani e 13 risoluzioni dell’Assemblea generale. Queste risoluzioni e le relative misure preventive e, in ultima istanza, coercitive, hanno dimostrato che è possibile un’azione collettiva per proteggere le popolazioni a rischio.

I singoli Stati e le reti globali, come la Rete globale dei punti focali R2P, hanno intrapreso varie iniziative nazionali per garantire la prevenzione di crimini e atrocità di massa attraverso il rispetto dei rispettivi impegni di cui al primo e secondo pilastro.

[7] Article 51: “Nothing in the present Charter shall impair the inherent right of individual or collective self-defence if an armed attack occurs against a Member of the United Nations, until the Security Council has taken measures necessary to maintain international peace and security. Measures taken by Members in the exercise of this right of self-defence shall be immediately reported to the Security Council and shall not in any way affect the authority and responsibility of the Security Council under the present Charter to take at any time such action as it deems necessary in order to maintain or restore international peace and security.

[8] https://sakeritalia.it/video/i-nostri-figli-andranno-negli-asili-e-nelle-scuole-i-loro-vivranno-nelle-cantine-p-poroshenko/

[9] In particolare, Viktor Orban sostiene che l’esercito ucraino stia procedendo al reclutamento forzato, vietato finanche dalla legge ucraina, in modo più radicale nei riguardi delle minoranze, tra cui romeni e ungheresi, un fenomeno oscurato dai media occidentali, sia perché l’evocazione di tale condotta alimenterebbe sentimenti anti-ucraini sia perché esso potrebbe giustificare l’ermeneutica russa circa l’intervento nel Donbass.

[10] https://lecourrierdesstrateges.fr/2022/04/04/ukraine-recits-contradictoires-sur-le-massacre-de-bucha/; https://dernieres-nouvelles.com/bucha-doit-faire-lobjet-dune-enquete-appropriee-et-non-etre-utilise-a-des-fins-de-propagande-rt-russie-et-ex-union-sovietique/; https://brunobertez.com/2022/04/09/a-propos-de-bucha-il-y-aurait-des-temoignages-de-journalistes-francais-qui-contredisent-les-massacres/; e altri

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