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UN ANNO FA A CUBA I PRIMI CASI DI CORONA VIRUS: IL BILANCIO DELLA PANDEMIA UN ANNO DOPO

Un anno fa, l’11 marzo 2020, lo stesso giorno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava la pandemia mondiale, a Cuba venivano registrati i primi casi di persone infettate con Covid 19.

Tre dei quattro turisti italiani che erano entrati sull’isola alcuni giorni prima furono diagnosticati affetti da corona virus. Il gruppo era partito alcuni giorni fa da Milano con destinazione Cuba ma evidentemente erano già positivi al corona virus. Arrivati all’aeroporto di L’Avana subito si spostarono a Trinidad, nel centro dell’isola nella provincia di Sancti Spiritus, dove il giorno successivo, l’11 marzo, i proprietari della casa dove alloggiavano non vedendoli si allarmarono. Immediatamente trasportati all’ospedale furono sottoposti al test molecolare che risultò positivo.

La notizia dei primi contagi fu resa nota dalle autorità sanitarie la sera durante il telegiornale delle 20 trasmesso dalla televisione cubana. In quei giorni mi trovavo a Trinidad ed ho potuto vedere come già il giorno successivo nella città che conta circa 45 mila abitanti ed è una delle più turistiche di Cuba le misure per evitare la diffusione del virus fossero attuate con scrupolosa diligenza. Tutti i locali pubblici avevano soluzioni per il lavaggio delle mani, nei ristoranti venne subito attuato il distanziamento dei tavoli. 

Nei giorni successivi furono chiusi i confini dello stato e di conseguenza il turismo, fonte principale di ingresso di valuta pregiata del paese, cessò. I ristoranti e le attività private legate al turismo si fermarono, ma non vi era altra possibilità per evitare che i turisti arrivati a Cuba potessero importare il virus. Mi sono meravigliato della celerità con cui le misure di prevenzione sono state prese. Con il passare dei giorni ho capito il motivo di tale celerità: a Cuba esistono piani di emergenza per ogni evenienza. Esistono piani di emergenza, gestiti dalla protezione civile, da attuare in caso dell’arrivo di un uragano, per un terremoto e per le pandemie. Sull’isola i piani di emergenza vengono redatti, aggiornati e messi in pratica eseguendo esercitazioni periodiche, non come in Italia dove il piano pandemico risale al 2006.

Cuba era pronta ad affrontare la pandemia perché aveva un piano di emergenza messo a punto nei mesi precedenti. Si sapeva che prima o poi anche sull’isola sarebbe arrivato il virus quindi lo stato aveva iniziato con anticipo tutte le procedure per evitare di essere colto di sorpresa. Il piano era stato attualizzato secondo le direttive dell’OMS, era stato portato a conoscenza di tutte le provincie e dei municipi, il personale sanitario era stato istruito e nei centri di lavoro i dipendenti pubblici sapevano cosa occorreva fare al momento in cui i primi casi si sarebbero verificati. Cuba era preparata alla guerra batteriologica quindi le misure prese  per combattere il corona virus facevano parte delle misure che dovevano essere prese nel caso il vicino statunitense avesse deciso di gettare armi biologiche sull’isola. Inoltre Cuba aveva già avuto due gravi crisi: la peste porcina degli anni ’80 e il virus del dengue agli inizi del 2000.

La strategia messa a punto dallo stato cubano per evitare la diffusione del virus si basa in primo luogo sul fatto che la persona deve stare al centro delle decisioni prese. Questo significa che se per prevenire l’ingresso del virus sull’isola occorre  chiudere i confini con il conseguente crollo del turismo questa decisione viene presa senza aspettare. In secondo luogo vengono tracciati con scrupolo tutti i contatti che le persone infette hanno con amici, parenti, compagni di lavoro e semplici cittadini al fine di circoscrivere il focolaio di infezione. I casi positivi vengono alloggiati in speciali strutture o ospedali se necessario. Questa strategia ha permesso all’isola di contare solo poche decine di casi nei primi sei-sette mesi dall’inizio della pandemia. Sui dati che venivano giornalmente forniti dalle autorità sanitarie si è speculato moltissimo nei primi mesi. Sui siti e sui profili dei social gestiti dai controrivoluzionari di Miami veniva veicolata la falsa notizia che il governo cubano occultava le reali dimensioni della pandemia per scopi politici. I cubani residenti negli Stati Uniti che erano fuggiti da Cuba, rea secondo loro di essere un paese governato da dittatori, non potevano accettare che nel paese dove avevano ottenuto asilo le morti per corona virus erano dieci o venti volte maggiori che a Cuba. Con il passare del tempo però questi personaggi se ne sono dovuti fare una ragione: il loro paese natale stava affrontando la pandemia come nessun altro paese al mondo stava facendo.

Durante il mio periodo di permanenza sull’isola ho conosciuto alcuni cubani residenti negli Stati Uniti che avendo saputo di essere contagiati dal corona virus sono tornati nel loro paese per farsi curare. Cuba li ha curati senza chiedergli niente. Un amico cubano un giorno parlando di questo mi ha detto che se fosse stato per lui avrebbe preso questi traditori della patria e li avrebbe messi su un aereo e li avrebbe rispediti negli Stati Uniti.

I contagi fino agli ultimi mesi dell’anno scorso erano pochissimi, sono invece aumentati da novembre quando gradualmente sono stati riaperti i confini. I viaggiatori hanno portato il virus sull’isola ed adesso i contagi giornalieri sono passati da poche decine a molte centinaia. La causa va ricercata nel non rispetto delle rigide misure che i viaggiatori in ingresso dovevano rispettare: era prevista una quarantena in casa in isolamento per dieci giorni. Purtroppo l’indisciplina dei viaggiatori, nella maggior parte cubani residenti all’estero che rientravano in patria,  che non hanno rispettato la quarantena a fatto sì che il virus si propagasse con rapidità ed ha portato la media giornaliera dei contagi a circa 800 persone contagiate.

In ogni caso Cuba resta uno dei paesi dove la pandemia ha causato meno contagi e morti in un anno. Secondo i dati forniti oggi dal Ministero della Sanità i contagi in un anno ammontano a 59.157 ed i deceduti sono 361, numeri che se messi a confronto con quelli dei paesi del primo mondo fanno impallidire. Se poi si considera che Cuba è sottoposta ad un blocco commerciale, economico e finanziario dal 1962 da parte degli Stati Uniti questi dati hanno del miracoloso. Ma di miracolo non si può parlare: questi dati non sono un caso fortuito ma fanno parte di una strategia ben precisa, che come detto, mette la persona al primo posto e non il profitto. Non poteva essere diversamente in un paese socialista.

Tra i deceduti non figura nessun bambino o persona di età inferiore a 18 anni e per questo il Presidente Miguel Diaz Canel ha detto orgogliosamente oggi che “la cura della persona a Cuba è prioritaria e il fatto che non ci siano morti in età pediatrica lo dimostra”. 

Infine sull’isola è già in fase tre la sperimentazione del vaccino Sovrana 02 completamente disegnato, sviluppato e prodotto sull’isola. Al termine della sperimentazione tutti i cubani saranno vaccinati con il preparato nazionale. Lo sviluppo del vaccino era iniziato nel mese di maggio dello scorso anno quando l’isola decise di produrre in proprio il suo vaccino per far fronte alle limitazioni che il blocco procura anche nel settore farmaceutico. Infatti l’isola non avrebbe potuto approvvigionarsi dei vaccini prodotti dalle grandi case farmaceutiche mondiali a causa del blocco, da qui il nome di  Sovrana, ovvero essere sovrani ed indipendenti dagli altri in un campo delicato come quello della lotta alla pandemia. Questo però non è il solo vaccino sviluppato dall’industria biofarmaceutica cubana, infatti ad oggi si contano ben cinque preparati contro il corona virus che attualmente si trovano in fase di sperimentazione.

Per concludere poi non bisogna dimenticare come Cuba abbia voluto contribuire, con l’invio di medici in mezzo mondo, a condividere le sue esperienze in campo medico con gli altre nazioni nella lotta al corona virus. In un mondo in cui i vari paesi litigano per una dose di vaccino la solidarietà cubana deve far riflettere: un paese che si trova di fronte alla pandemia più grande della storia, con mezzi limitati dal blocco economico e non dalla mancanza di professionalità del suo personale medico, si può permettere di mandare i propri medici in Lombardia o in Piemonte, regioni altamente industrializzate,  per tappare i buchi di un sistema sanitario che non ha funzionato.

Andrea Puccio – www.occhisulmondo.info

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