LA PERICOLOSA VISITA DI NANCY PELOSI A TAIWAN 

di Alberto Bradanini

 

Il 3 agosto scorso, con un’inutile visita a Taiwan, la presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, ha messo in moto una spirale di pericolose tensioni di cui nessuno, tranne le oligarchie predatorie del pianeta, sentiva la mancanza. Si è trattato di un gesto fabbricato a tavolino dallo stato profondo e parallelo americano – dove le differenze tra democratici e repubblicani somigliano a quelle tra Coca Cola e Pepsi Cola – allo scopo di trascinare la Cina in un conflitto che possa fermarne l’ascesa, essendo la Repubblica Popolare la sola nazione che, ancor più della Russia, possiede le caratteristiche per sfidare il mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti.

Mentre gli eterni valori dell’umanesimo presuppongono la pacifica convivenza tra tutte le nazioni del mondo, sulla base del principio di sovranità e pari dignità, la superpotenza americana mira invece a difendere i propri privilegi con le buone o con le cattive. Le nazioni che non si piegano a diventare colonie o protettorati americani vengono prima o poi aggredite politicamente, economicamente e se possibile anche militarmente.

È sperabile che la dirigenza cinese non si lasci trascinare in una trappola che – al netto di morti e distruzioni solo in parte immaginabili – farebbe gli interessi delle oligarchie corporative della City di Londra e di Wall Street, del complesso militare-industriale e dello stato profondo americano, non certo della Cina.

Una guerra tra Pechino e Taipei arresterebbe l’ascesa della Cina – la crescita economica dipende infatti, come ovunque, da investimenti, domanda interna e commercio (e quest’ultimo sarebbe la prima vittima di un conflitto che la coinvolgesse). I dirigenti cinesi paiono consapevoli che si tratta di un tranello. Non è certo un segreto che il sogno segreto dell’impero americano punta a duplicare contro la Cina quella guerra per procura che in Europa, e con il sangue degli ucraini, sta combattendo contro la Russia. In tale contesto, non si vede cosa spingerebbe la dirigenza taiwanese a lasciarsi risucchiare in questa tragica spirale, accettando un conflitto devastante per il proprio popolo, a meno che essa non venga arruolata dietro le quinte dai mortiferi apparati dell’intelligence americana.

  La Pelosi a Taipei rappresenta dunque una tessera di quella tela che gli Usa intendono costruire contro la Cina, ignorando le ragioni della pace e della soluzione pacifica delle controversie, ivi comprese quelle che riguardano il futuro di Taiwan. Gli imperi, e quello americano non è certo il primo, fanno tuttavia fatica a convivere con altre nazioni su un piede di parità e equa condivisione di problemi e soluzioni.

Se la reazione cinese si limiterà alla fermezza formale sul principio dell’esistenza di una sola Cina, ribadendo che la riunificazione avrà luogo pacificamente e quando le condizioni tra le due parti lo consentiranno, allora questa crisi potrà essere presto archiviata. In fine dei conti, anche nel 1997 aveva avuto una visita simile, quando l’allora presidente della Camera dei Rappresentanti, Newt Gingrich, si era recato a Taipei con propositi analoghi, senza peraltro lasciare tracce indelebili dietro di sé. Per Pechino, resta fondamentale il mantenimento dello status quo. Del resto, non vi sono segnali che i dirigenti di Taipei intendano avventurarsi verso un’ipotetica, antistorica e rischiosissima dichiarazione formale d’indipendenza, il solo evento potenzialmente in grado di spingere Pechino a considerare un eventuale intervento, tenuto conto che Taiwan indipendente nei fatti lo è già, e questo è ciò che più conta, come logica suggerisce.

Per il momento la reazione di Pechino è stata di natura dimostrativa, mettendo in mostra la forza di cui dispone. Tuttavia, il punto centrale resta di natura politica. Per il bene della Cina e del mondo intero, la dirigenza della Repubblica Popolare avrebbe interesse a seguire i suggerimenti a suo tempo elargiti da Deng Xioaping, secondo il quale la soluzione della questione di Taiwan va demandata alle future generazioni di leader, quelli a Pechino e quelli a Taipei.

Resta la circostanza che le due potenze, Cina, Stati Uniti e se le condizioni lo consentissero, Russia e altre nazioni emergenti – sull’Europa non si può contare, poiché da tempo un protettorato politico e militare degli Stati Uniti – dovrebbero accettare di sedersi intorno a un tavolo per affrontare insieme e pacificamente i problemi del mondo, sulla base di una prospettiva di straordinario valore etico e politico, la costruzione di un destino comune per tutta l’umanità, su cui la dirigenza politica cinese ha più volte messo l’accento.

È ben chiaro che si tratta di una prospettiva contraria ai privilegi imperiali e dunque affinché tale opzione possa concretarsi gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare quel bizzarro convincimento di essere la sola nazione indispensabile nel mondo (Bill Clinton, 1999) insieme alla favola mitologica che giustificherebbe il suo eccezionalismo, accettando di tornare ad essere una nazione normale per contribuire a costruire pace e speranza di prosperità per tutti i popoli del pianeta.

Fonte: www.lafionda.org

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